Quelli che, come Enrico Letta, vogliono continuare a lavorare sull’alleanza con i Cinque stelle nonostante il pasticciaccio romano, sono però quelli che vogliono il proporzionale, che a lui piace poco. Quelli che vogliono il maggioritario, come il segretario, sono però quelli – non si capisce sulla base di quale ragionamento – più scettici sul rapporto con il M5s. Alla direzione del Pd Letta prova a tenere calmi gli uni e gli altri. Ai primi ricorda che la legge con cui votare non è all’ordine del giorno: se il parlamento se ne occupasse ora sarebbe «sfasato rispetto alle esigenze della società». I secondi, quelli ostili ai Cinque stelle, si sentono ripetere le formule-feticcio: «Lavoreremo sull’identità del Pd», e «le alleanze non definiscono chi siamo». Lo scontro è rimandato a dopo le amministrative. Fino ad allora Letta cerca di far capire ai suoi che bisogna lavorare ventre a terra per vincerle.

Alla fine il segretario ringrazia tutti per «la franchezza del confronto». Non che la «franchezza» si sia sentita davvero. Ma la direzione è stata convocata in fretta per evitare che i malumori debordati nei retroscena si trasformassero nell’ennesimo, eterno, tiro al piccione, sport più praticato dal gruppo dirigente verso il segretario di turno. Letta ha fatto esperienza dell’ipocrisia dei suoi nel 2014. E conosce l’unanimismo di facciata di cui godeva Nicola Zingaretti fino a un minuto prima di lasciare. Ora prova a prevenire un fenomeno forse incurabile del suo partito, il logoramento del leader. Negli scorsi giorni ha letto sui giornali le perplessità di alcuni sulla sua proposta di maggioritario, in realtà solo accennata al momento dell’insediamento. Ha letto anche dell’esultanza di altri sulla crisi nera in cui è entrato il fidanzamento con il M5s. Per questo chiama tutti a parlarne apertamente. In streaming, «non per cedimento al populismo», assicurano i suoi collaboratori, ma per evitare le ricostruzioni de relato.

Questioni irrisolte

Le questioni interne però restano irrisolte. Per il suo vice Peppe Provenzano «la legge elettorale è all’ordine del giorno dopo la riduzione del numero dei parlamentari». Quando, aggiunge il senatore Francesco Verducci, «abbiamo legato il nostro sì al referendum a una legge proporzionale». Anche Goffredo Bettini, sponsor dell’alleanza con il M5s, ammette di essere sempre stato «per uno schema maggioritario» ma «ora il proporzionale rispetto alla strategia in campo è più consono». I difensori del maggioritario su questo non si fanno sentire. Puntano il dito invece «sui limiti dell’alleanza strategica con il M5s», come dice Alessia Morani (Base riformista), oggi che il Pd è lontano «anni luce dal davighismo o giustizialismo» è meglio ripartire «da quel 10 per cento che orbita attorno al Pd e che sta nel centrosinistra senza incertezze». La deputata cita Art. 1, che ieri e oggi tiene l’assemblea nazionale, a cui Letta parteciperà. Ma pensa anche a Italia viva, e al suo candidato a Roma, Carlo Calenda. Diversa la posizione di Gianni Cuperlo: «Oggi la leadership di Conte, in mezzo a molte difficoltà, è obbligata a un’operazione di verità. Che io penso e spero possa condurre un pezzo di quell’esperienza a saldarsi con il campo alternativo alla destra».

Lo scontro è solo rimandato. Letta spera nelle «agorà», ricorda che «solo con un’unità profonda fra noi riusciremo ad essere convincenti». Per convincere gli elettori e gli iscritti annuncia un tour nel paese per presentare il suo libro Anima e cacciavite, in uscita fra dieci giorni. Per convincere il gruppo dirigente ci vorrà più fatica. Ma è sicuro che ce la farà. Per una ragione semplice, l’ha spiegata alla stampa estera al momento della sua elezione: «Perché resisterò più di altri segretari? Perché questa è l’ultima chance». Per il Pd, intendeva.

© Riproduzione riservata