Si parla “a chiave” ormai nelle camere, per esempio si dice manovra ma si capisce che si sta parlando di Quirinale.

La mossa di Enrico Letta, ovvero convocare un tavolo politico con i segretari delle forze della maggioranza per mettere in sicurezza la legge di Bilancio, ha un obiettivo esplicito, che il segretario Pd indica in «evitare che la manovra si trasformi un Vietnam, assicurarsi che sia ben impostata nell’orizzonte del Piano nazionale di ripresa, che non sia né annacquata né azzoppata nel passaggio parlamentare».

Come spiega il deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti: «Senza un vertice di maggioranza che coinvolga i partiti e parlamentari di entrambe le camere, accadrebbe la classica cosa che capita col cosiddetto monocameralismo di fatto, cioè che in questo caso avrebbero il potere di emendare solo le poche decine di senatori della commissione Bilancio del Senato».

Entrambe le camere verosimilmente approveranno il testo con voto di fiducia ma a Montecitorio, la seconda camera, sarà la classica pigiata di bottone. C’è anche per rispondere all’allarme che arriva da più fronti, dal commissario europeo Paolo Gentiloni fino ai sindaci, sul rischio di fallire il piano di rilancio del paese, il cui ingranaggio è ancora lontano dal mettersi in moto.

Da Di Maio al Cavaliere

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I sì alla proposta di Letta sono arrivati da tutti i destinatari, da Silvio Berlusconi a Matteo Salvini, i cui senatori però fanno ironia sui toni fin qui tenuti nel corso della discussione sulla legge contro l’omofobia; fino a Luigi Di Maio, che nel Movimento 5 stelle continua a essere il leader più reattivo, certamente più di Giuseppe Conte: «Draghi ha tutto il nostro sostegno. Ora che stiamo per approvare la legge di Bilancio, se si da al parlamento il segnale sbagliato, rischiamo di compromettere il lavoro sulla manovra», dice il ministro degli Esteri. Forza Italia ha già dato la sua disponibilità fattiva a un accordo «prima del voto in senato».

E preparato le sue richieste, alcune concretamente esigibili altre di bandiera, come la flat tax sul ceto medio. Ma la sottolineatura del coordinatore Antonio Tajani è «scrivere un testo che sia il più possibile condiviso, evitando che il parlamento si trasformi in terreno di scontro», «con quello stesso spirito di generosità che ha consentito di promuovere la nascita del governo di Mario Draghi».

Oggi pomeriggio la manovra approda in commissione a palazzo Madama. La presidente dei senatori Pd Simona Malpezzi chiede «un patto tra tutte le forze che sostengono il governo per varare questa legge di bilancio attraverso proposte migliorative concordate in parlamento», dunque la richiesta è «che i capigruppo di maggioranza si incontrino già nei prossimi giorni per trovare un metodo che consenta di lavorare bene». Giovedì potrebbe essere già il giorno buono.

Stamattina Letta riunisce la segreteria. «La mia è un’apertura sulle modalità», spiega, «su questo siamo “laici”, il Pd non ha la pretesa di guidare il percorso ma creare un clima in cui tutte le forze politiche possano sentirsi a proprio agio. È un lavoro collettivo».

I capigruppo – spiegano al Nazareno, segnalando il gioco di sponda di Malpezzi – individuano un percorso sia in commissione che in aula e insieme scelgono il momento più opportuno per coinvolgere i segretari e i leader di partito. Il momento giusto potrebbe essere dopo il deposito degli emendamenti. Ma su una cosa Letta vuole essere chiaro: «Non dobbiamo portare a Draghi un problema, dobbiamo contribuire a risolverglielo».

Renzi all’angolo

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Ma si dice manovra e si legge Quirinale. La mossa di Letta arriva nel momento di massima difficoltà di Matteo Renzi, fra l’inchiesta su Open e le rivelazioni dei tentativi organizzati di screditare gli avversari con la stessa moneta delle contestate fake news in rete. Il senatore fiorentino da mesi si preparava a intestarsi la regia del voto al Quirinale, ma stavolta sembra finito all’angolo. Né la Leopolda, che inizia il 18 novembre a Firenze, può essere l’occasione per una mossa sul delicato dossier del Colle. Troppo presto. Letta approfitta per dare le carte e costruire un ponte con FI e Lega.

Al Nazareno si nega questa interpretazione. La proposta di un tavolo è un modo per «sparigliare» viene spiegato, «le elezioni amministrative sono andate anche troppo bene per il Pd, nel senso che hanno ingenerato una serie di tensioni nelle altre forze che rischiano di ripercuotersi nel lavoro del governo». Da lì si guarda con preoccupazione il rallentamento, anche quello del lavoro sulla legge di bilancio. Anche, se non soprattutto, per rimettere insieme le forze di maggioranza, dopo la spaccatura sulla legge Zan proprio nel vallo del Senato, e costruire un clima di fiducia.

Fiducia per necessità, ovviamente. È chiaro a molti che se la maggioranza non riuscirà ad eleggere unita – o rieleggere, alcuni non lo escludono – il nuovo capo dello stato, la tenuta del governo è a rischio. Al punto che ormai la convinzione in una parte del Pd è che il governo paradossalmente sarebbe più stabile con Mario Draghi al Quirinale che con Draghi che resta a palazzo Chigi mentre la sua maggioranza si spacca sul voto al Colle. Ma in questa lettura si indovina anche la voglia di andare al voto.

Il tema è che un candidato comune al momento non si intravede. Sarebbe appunto Draghi stesso, e non Giuliano Amato, non Marta Cartabia né Paola Severino, per dire dei nomi più bisbigliati. Però la mossa di mettere tutti intorno a un tavolo viene apprezzata anche dentro il Pd, anche dalle parti da cui fin qui si guardava con preoccupazione all’assenza di iniziativa del segretario, dietro la cortesia istituzionale di «se ne parla dopo Natale».

«La giocata Letta ha di buono che comunque apre un dialogo. O almeno lo propone. Poi si vede chi resta al tavolo fino alla fine, ammesso che si apra davvero discussione», spiega un dirigente di prima fascia, a patto di rimanere anonimo. C’è chi non ritiene il bis di Mattarella ancora fuori gioco. Stefano Ceccanti lo dice da giorni. Ma anche altri suoi colleghi ne sono convinti, a patto che «parta una richiesta da parte del 90 per cento del parlamento» e «ci si arrivi subito e non per logoramento, al primo giro e non dopo un mese di votazioni a vuoto».

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