La trasformazione definitiva del Movimento 5 Stelle in partito-uguale-agli-altri non si è compiuta con gli Stati generali di metà novembre. Ma due giorni fa. Quando la sindaca di Roma Virginia Raggi ha chiarito a Rainews24 che anche se venisse condannata per falso in atto pubblico non solo non si autosospenderebbe dall’M5s, ma andrebbe avanti senza ritirare la sua candidatura alle comunali di primavera: «La città ha bisogno di una guida sicura, io sono onesta, sto portando avanti provvedimenti che sono fondamentali».

I seguaci di Beppe Grillo hanno da tempo abbandonato gli antichi pudori, e mostrano senza imbarazzi novecentesche divisioni in correnti, zuffe sugli «organi collegiali», lotte democristiane per le poltrone. Le parole della Raggi sono però un balzo avanti, un timbro finale alla metamorfosi. Perché minano i principi costitutivi del grillismo: la rettitudine senza macchia come condizione principale per la rappresentanza, la subalternità del potere politico a quello della magistratura, il claim «gli altri sono ladri, noi siamo puliti» che, per essere credibile, non può mai essere certificato dall’imputato (come prova ad anticipare la sindaca) ma solo da un giudice terzo. La Raggi in poche frasi ha dunque fatto strame, nel silenzio imbarazzato di Luigi Di Maio e dei ministri pentastellati, di miti e totem fondanti del Movimento.

Il giorno del giudizio

Ora il giorno del giudizio della sindaca della Capitale è fissato, salvo rinvii, al 14 dicembre. La grillina è accusata dalla procura di Roma di aver mentito a un dirigente dell’anticorruzione, al quale giurò che fu lei e non l’allora direttore del personale Raffaele Marra, il suo ex braccio destro poi arrestato e accusato di corruzione, a scegliere in piena autonomia lo scatto di carriera del di lui fratello. In primo grado il giudice monocratico ha dato ragione alla Raggi, ipotizzando «un raggiro» ai suoi danni ordito dai Marra. Adesso i magistrati romani sperano di capovolgere il verdetto, convinti non solo che Raffaele lavorò per mesi per agevolare il parente, ma che la sindaca mentì per non dover lasciare la poltrona a causa dell’inchiesta e dei rigidi vincoli (poi rivisti al ribasso) imposti dal codice etico del Movimento.

Venisse assolta, la Raggi avrebbe la strada spianata. In caso contrario, invece, la faccenda si complica parecchio. La caduta giudiziaria della Raggi porterebbe caos nel partito, ma solo nel breve. Una condanna consentirebbe ai “governisti” del Movimento di isolarla senza più remore, e senza pericoli di contraccolpi dalla base. Di Maio e compagni potrebbero trattare insieme al Pd un nome comune da opporre a quello (Guido Bertolaso?) della destra.

L’esito giudiziario non è solo una questione cittadina: la barcollante alleanza giallorossa che regge il governo Conte, senza intese politiche nelle grandi città che vanno al voto nel 2021, è destinata a logorarsi ancor di più in caso di campagna elettorale fratricida. Il governo e la maggioranza non possono permettersi tracolli a Roma, Milano, Torino e Napoli, e a oggi l’autocandidatura della Raggi resta uno dei principali ostacoli all’accordo di sistema tra i due partiti. Tra gli architetti della maggioranza giallorossa si annida qualche cinico che, in caso di condanna di Virginia, annuncia sottovoce di voler festeggiare a champagne.

Colpevole o innocente

Intendiamoci. Chi scrive è convinto che la sindaca non dovrebbe fare alcun passo indietro per eventuali censure penali sul presunto falso. Si tratta di un reato bagatellare, di poco rilievo. Il giudizio preventivo sulla Raggi è solo politico: la sindaca di Roma è certamente colpevole, ma per manifesta incompetenza nel governo della Capitale, per l’approssimativa selezione della classe dirigente, per una gestione dolosa del comando, per aver sistematicamente privilegiato la fedeltà al merito. Non serve attendere i giudici per ricordare che la sindaca in quattro anni e mezzo ha sostituito più di una dozzina di assessori, un vicesindaco, un vicecapo di gabinetto, oltre a una ventina di manager delle partecipate e tre comandanti dei vigili urbani (l’ultimo, nominato solo a luglio, ha lasciato due giorni fa).

Raggi ha anche mentito su Marra appena arrestato («è solo uno dei 23mila dipendenti del comune»), e sull’ex amica e assessore Paola Muraro: per quasi due mesi negò di essere a conoscenza di eventuali procedimenti giudiziari su di lei. Caduto Marra, ha la colpa di essersi affidata mani e piedi a Luca Lanzalone, l’ex mr Wolf della giunta pentastellata arrestato per corruzione nel 2018 in merito a illeciti nella storia infinita del nuovo stadio della Roma.

I cantori della Raggi e del grillismo fanno spallucce. Anche di fronte alle differenze con l’alter ego torinese Chiara Appendino, che condannata a sei mesi per falso in atto pubblico ha annunciato che non correrà di nuovo perché, seppure l’entità della sanzione sia lieve, «in politica bisogna essere coerenti con i propri principi». Clemenza anche davanti ai guai giudiziari che hanno coinvolto il presidente dell’assemblea capitolina, Marcello De Vito.

Per alleggerire la posizione di Raggi, i suoi fan sono soliti paragonare la consiliatura ai disastri di Gianni Alemanno, o alla breve stagione di Ignazio Marino, archiviata anzitempo a causa di Mafia Capitale e del fuoco amico. «Rispetto a loro Virginia è come Nilde Iotti», sostengono, sorvolando sulla catastrofe amministrativa, il degrado del verde e delle periferie, gli autobus che prendono fuoco e le speranze tradite dagli elettori che auspicavano, votandola in massa, in un riscatto della capitale.

I decisori dei partiti hanno cerchiato in rosso il 14 dicembre, ma la sentenza nel caso dei fratelli Marra lascerà del tutto indifferenti i romani, angustiati da ben altre mancanze e priorità. Solo i grillini ripenseranno forse a quanto declamava Alessandro Di Battista tempo addietro: «Il sindaco di Roma? È una foglia di fico in un sistema complesso gestito da criminali. Questo non significa che il sindaco sia coinvolto. Ma per incapacità non è degno di fare il sindaco di Roma. Gli incapaci sono colpevoli quanto i delinquenti». Parlava di Marino. Non immaginava che dopo un lustro il Movimento sarebbe diventato come gli altri partiti, e che i suoi strali sarebbero stati lanciati anche contro la leader scelta da Grillo e Casaleggio.

 

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