L’intenzione del presidente della Repubblica, e la sua volontà, sono ormai inequivocabili: non vuole essere costretto a prolungare il suo mandato al Colle come invece fece il suo predecessore Giorgio Napolitano. Negli ultimi mesi lo ha detto più volte, in via indiretta ma esplicita. Per questo chi ha parlato ieri pomeriggio con Sergio Mattarella lo descrive stupito dall’eco delle sue parole, pronunciate in risposta a una domanda degli alunni della terza elementare della scuola Geronimo Stilton di Roma su quanto è faticoso il suo lavoro: «Vedete ragazzi, il lavoro è impegnativo ma tra otto mesi il mio incarico termina, io sono vecchio, tra qualche mese potrò riposarmi». C’è una quota di casualità in questa risposta, viene assicurato.

Nel discorso del 31 dicembre 2020 ha annunciato l’inizio del suo «ultimo anno come presidente della Repubblica». Martedì scorso a Brescia ha usato l’espressione «ultimi mesi della mia presidenza»; a fine marzo davanti a una rappresentanza dell’Aeronautica militare ha parlato dell’incontro come «l’ultimo del mio mandato». A febbraio, in una celebrazione del presidente Antonio Segni, ha fatto un passaggio per sostenere, con le parole del predecessore, il principio della non immediata rieleggibilità del capo dello stato.

Al Colle non sfugge che è partita quella «una campagna» per il prolungamento del suo mandato. Da una parte chi gli indirizza preghiere di permanenza. Dall’altra Matteo Salvini che da giorni batte sul tasto dell’elezione dell’attuale premier al Quirinale. Anche ieri ci è tornato: «Se il presidente Draghi ritenesse di proporsi, ovviamente avrebbe il nostro più convinto sostegno. Però da qui a febbraio manca tanto tempo e, a differenza del Pd che ha almeno dieci candidati di partito, noi aspettiamo il tempo dovuto».

Il Pd attende

Da parte Pd le indicazioni sono più felpate. Ieri Enrico Letta, da Bruxelles, ha risposto che la partita di gennaio – il mandato di Mattarella scade il 3 febbraio – sarà affrontata con «lo spirito migliore per trovare le migliori soluzioni», ma «gennaio è talmente lontano», «noi auspichiamo continuità di governo e lavoriamo con il massimo di impegno perché le riforme vengano applicate». Al di là delle convenienze dei dem, il rischio che senza Draghi l’avvio delle riforme deragli è concreto.

A palazzo Chigi questi ragionamenti rimbalzano come su un muro di gomma. Per ora. La presidenza del Consiglio è stata un fuori programma per chi sembrava destinato direttamente al Colle. E nella squadra dei ministri c’è chi ha confidato di aver ricevuto un ingaggio «fino a dicembre, e cioè fino a chiusura della finanziaria» e chi invece parla di «febbraio».

Per i partiti invece il punto naturalmente è la data del voto: la destra di opposizione e di governo punta a mandare Draghi al Colle e il paese alle urne, per cogliere il vento favorevole finché dura. Il centrosinistra, Cinque stelle compresi, spera di avere tempo per la rimonta, e Draghi premier è la migliore garanzia di tenere in piedi la legislatura. Perché, viene spiegato autorevolmente, «il mandato di Draghi non è solo portarci fuori dalla pandemia, ma anche gestire il rilancio dell’economia. Sarebbe insensato non tenerlo alla presidenza del Consiglio». Per Letta si tratta anche una partita interna delicata. Se non sono «dieci» le personalità dem che sperano, poco ci manca. Circolano i nomi di Walter Veltroni, Romano Prodi, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, David Sassoli...

Ipotesi Cartabia

Ma il Pd non è insensibile al «partito delle istituzioni» che si va coagulando intorno alla figura della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Una donna che, per dirla con un navigatore di lungo corso del Transatlantico, «è l’ideale: viene dalla scuola del costituzionalismo, è garantista ma non dispiace ai magistrati. È garante dei partiti ma è fuori dalla loro tradizione. Rappresenta la novità di una donna, ovvero la rottura della tradizionale selezione dei vertici istituzionali con le combinazioni spartitorie». E però il ragionamento sulla permanenza dell’attuale premier trova qualche fondamento dal lato forzista: «Draghi più resta meglio è. Il prossimo anno, al tavolo europeo in cui verranno rinegoziati i trattati e il patto di stabilità, avere Draghi, e cioè il più autorevole dei leader europei, per l’Italia significherebbe avere un peso maggiore di ogni altro eventuale premier», spiega Andrea Cangini, senatore azzurro esponente dell’area liberal. A destra del resto le variabili in campo sono molte. La presenza di Berlusconi, l’esito della sfida Salvini-Meloni, che comunque puntano a un Colle non ostile in vista del governo delle destre. Fra i due litiganti, potrebbe vincere l’enorme partitone trasversale che punta ad arrivare alla fine della legislatura.

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