Si ritorna alla casella iniziale, dove si pescano i nomi di Sergio Mattarella e Mario Draghi. Nella giornata di ieri le carte considerate vincenti sono state accantonate e sono tornate in gioco quelle che erano state, non scartate si scopre, ma tenute da parte fuori dal banco. Nel giro di una notte la corsa verso il Colle di Pier Ferdinando Casini rallenta fino a fermarsi, almeno temporaneamente.

Subito dopo parte lo sprint di Elisabetta Belloni. Ma poi si spiaggia. Enrico Letta, il segretario del Pd che in questi giorni fa base a Montecitorio, torna a intravedere il premier alla fine del tunnel dei «bilaterali» con gli altri leader. Il gruppone dei pro Mattarella, un’area variegata trasversale fra M5s e Pd continua a rafforzarsi in Aula. Ieri il presidente uscente ha preso 166 voti contro i 125 di mercoledì. Ma tutti sanno che serve una drammatizzazione per bussare alla porta di Mattarella.

Che resta nel suo composto silenzio stampa. Persino la filiera cultural-politica che inizia all’Istituto Treccani e alla fondazione Italianieuropei e finisce in un’ala della sinistra Pd di rito orlandiano, riprende a sperare in un’ultima occasione per Giuliano Amato, sebbene nel Pd ci sia chi racconta che «Salvini da subito ha fatto sapere che non l’avrebbe mai votato».

Meno Casini per tutti

Ieri doveva essere la vigilia della fumata bianca, il giorno del conclave fra giallorossi e Salvini nei panni del plenipotenziario del centrodestra, e invece è stato il giorno dello stallo, del pantano, e del ritorno sulle ipotesi tramontate.

Mercoledì notte Letta ai suoi grandi elettori indicava venerdì, oggi, come il giorno del nuovo presidente della Repubblica. La statistica non è dalla sua parte, nessun presidente è stato mai eletto alla quinta votazione. Ma il fatto è che il leader leghista ha lasciato trasparire un mezzo sì su Casini. Invece ieri, all’alba, lo boccia: per evitare le ire di Giorgia Meloni e perché nella Lega l’ex Dc non passa. Casini si ferma, almeno di un giro.

E così, come in una giostra, per una seggiolina che scende ce n’è una che sale. È ancora mattina quando prende quota l’ipotesi Elisabetta Belloni, prima donna segretaria generale della Farnesina e prima donna in Italia alla guida dei servizi segreti. Il suo nome l’ha fatto Giuseppe Conte a Salvini. Belloni è stimata, ha un rapporto solidissimo con Draghi, ma i dem non voteranno una 007 al Quirinale. Il ministro Luigi Di Maio, che con lei ha un debito di gratitudine, cerca di proteggerla: «Non giochiamo a bruciare nomi». Il socialista Riccardo Nencini, solcando il Transatlantico, fa un gesto di insofferenza: «ll capo dei servizi segreti non può assurgere a vertici istituzionali per potenziale potere di condizionamento. Non siamo in Sudamerica o nella Russia di Putin». Anche Belloni si ferma, almeno per un giro.

Salvini a vuoto

Nel cortile di Montecitorio, mentre la quarta chiama si consuma velocemente e il presidente Roberto Fico medita la doppia chiama (oggi la decisione), tutti attribuiscono la responsabilità dello stallo a Salvini. I cronisti non riescono a stare dietro al suo attivismo. Più che vedere papabili sembra sia alla disperata caccia di idee. Letta gli ha spiegato che i giallorossi voteranno solo «un presidente super partes».

Il leghista credeva di averlo trovato sondando il giurista Sabino Cassese, 87 anni. Ma ieri l’ex giudice costituzionale rilasciava serenamente interviste in tv e alle radio, segno inequivocabile di assenza di pathos quirinalizi. Poi è rimbalzato l’incontro con Giampiero Massolo, diplomatico, presidente di Fincantieri, uomo molto trasversale. Altra smentita.

La Lega fa sapere che il segretario «nelle ultime ore ha incontrato avvocati e docenti universitari. Altre indiscrezioni sono prive di fondamento». Ma che significa? L’alleata Meloni è sempre più irritata, i leghisti ormai attraversano il palazzo a passi lunghi e sguardo fisso avanti per non rispondere ai cronisti. Il ministro Giorgetti invece una cosa la dice: «Matteo ci ha detto: state tranquilli, è tutto a posto». Il famoso “va tutto bene”.

Salvini gioca su tre tavoli: quello della maggioranza, che non può rompere per non passare alla storia come chi ha affossato il governo Draghi; quello della coalizione del centrodestra, che non deve rompere per non regalare vantaggi propagandistici a FdI; e quello interno alla Lega. Giorgetti a più riprese gli ha spiegato che c’è un solo nome per il Colle che può farlo vincere su tutti e tre tavoli. Draghi. Tutti i leghisti hanno capito che o si elegge Draghi o si finisce in ginocchio da Mattarella. Tutti tranne Salvini.

Infatti in serata trapela l’ultimo coniglio estratto dal cappellaccio salviniano: Franco Frattini, ex commissario europeo, presidente del Consiglio di stato. Contro di lui Letta ha fatto muro in quanto troppo amico di Putin.

Dal Nazareno esplode un mezzo ultimatum: «Ma basta provocazioni. Il Pd è un partito serio che non si presta a improvvisazioni raffazzonate, tanto più dopo giornate di giravolte e mancanza di chiarezza. Il paese ci guarda, l’Europa e il mondo si chiedono cosa stia succedendo, dobbiamo essere all’altezza della gravità e della complessità del momento storico che viviamo».

Ma forse da un male può nascere un bene, forse tutto questo disperato movimento del Capitano finirà per portare verso Draghi. O Mattarella. Intanto un’altra volta si ritorna alla casella iniziale.

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