Nella mattinata di martedì, dal Montenegro, Sergio Mattarella ha spiegato che l’Italia ha una «posizione chiara» sulla guerra di invasione della Russia contro l’Ucraina, chiede «il ripristino del diritto internazionale» e una pace fra aggressore e aggredito «non fittizia». Da Bruxelles, dalla seduta del parlamento europeo, Mario Draghi ha lanciato un nuovo appello all’Unione perché agisca «sempre di più come se fossimo un unico stato» e si attrezzi a garantire con le proprie forze la sicurezza dell’Ucraina e della stessa Europa. Uno parlava alla Russia, uno parlava alla Ue, ma contemporaneamente i due autorevoli italiani, uno presidente della Repubblica e l’altro ex premier ed ex capo Bce, hanno indicato una strada politica all’Italia e all’Unione per uscire dall’angolo.

In particolare, va detto, al governo italiano che, nel pieno della crisi europea e nel primo giorno del tavolo Usa-Russia da cui Kiev e la Ue sono state escluse, ha una posizione debole e poco intellegibile. In sostanza non ce l’ha: ha una premier imballata fra l’amicizia con Donald Trump e la distanza con i paesi fondatori Ue. Mattarella e Draghi segnano una via possibile, non è chiaro se palazzo Chigi intende ascoltarli.

Perché il Cremlino intenda

Mattarella era in visita ufficiale in Montenegro, dove ha incontrato la comunità italiana di Podgorica e il presidente Jakov Milatović, con il quale ha tenuto una conferenza stampa. A lui Mattarella ha assicurato l’impegno italiano per l’ingresso nella Ue del Montenegro e dei paesi dei Balcani occidentali.

Poi però ha accettato di rispondere ai cronisti sugli attacchi e le minacce della portavoce del ministero degli Esteri del Cremlino Maria Zakharova come reazione – tardiva, dopo nove giorni, dunque ben meditata – alla sua lezione marsigliese, quella in cui, nell’interpretazione della propagandista russa, la Russia di Vladimir Putin sarebbe stata paragonata alla Germania di Hitler. In realtà il presidente ha ricordato che nel 1938 la politica dell’«appeasement» delle potenze europee davanti all’annessione dei Sudeti da parte del nazismo «non funzionò», fu «un tentativo vano di contenere le ambizioni distruttive» di Hitler.

Il presidente della Repubblica non replica a una portavoce di un ministero, ed è per questo che fin qui dal Quirinale era filtrato un silenzio sereno. Nessuna azione diplomatica, pure curiosamente auspicata da qualche politico italiano, aveva senso visto che alla propaganda russa fin qui non è corrisposta nessuna iniziativa diplomatica da parte di Mosca.

Dal Montenegro però Mattarella ha risposto ai giornalisti. Per rispetto, ha sottolineato, verso la libera stampa. Il paragone storico era sul diritto internazionale violato: «È utile ricordare che quando l’Ucraina, con il consenso della Russia, divenne indipendente all’inizio degli anni Novanta, disponeva di grandi quantità di armi nucleari» ex sovietiche, ma «su sollecitazione degli Usa e della Russia, l’Ucraina ha consegnato alla Russia quelle migliaia di testate nucleari che l’avrebbero certamente messa al sicuro da ogni aggressione e invasione».

Nel trattato firmato con Russia, Usa e Regno Unito, l’Ucraina otteneva l’impegno «dalla Russia anzitutto, a rispettarne e garantirne, l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale. Questo è il mondo che noi vorremmo si ripristinasse, quello in cui si rispettano gli impegni assunti, in cui si rispetta il diritto internazionale».

Dunque la prima carica dello stato ha tenuto il punto ribadendo quello che aveva detto a Marsiglia. Che non presuppone, come sostenuto, la rimozione del ruolo dell’Urss nella Seconda guerra mondiale né dell’immane sacrificio di vite russe e sovietiche.

Il realismo draghiano

Da Bruxelles Draghi invece ha squadernato quel realismo che non si è visto il giorno prima al tavolo informale di Parigi, fallito per confusione, cacofonia e mancanza di leadership dei partecipanti. «C’è una situazione molto difficile», ha detto l’ex premier, «abbiamo i nostri valori e differenze di opinioni. Ma non è il momento di sottolineare queste le differenze ora, è il momento di sottolineare il fatto che dobbiamo lavorare insieme», dunque «agire sempre di più come se fossimo un unico stato».

Draghi ha ripreso il discorso del rapporto sulla competitività presentato da lui stesso sei mesi fa, quando «il tema geopolitico principale era l’ascesa della Cina». Ora l’urgenza è trovare una strategia comune contro i dazi annunciati dagli Usa di Trump, che penalizzano «il nostro accesso al nostro più grande mercato di esportazione».

Una risposta comune «che coinvolge ricerca, industria, commercio e finanza richiederà un livello di coordinamento senza precedenti tra tutti gli attori: governi e parlamenti nazionali, Commissione e parlamento europeo». Un’azione, appunto, «come se fossimo un unico stato». Per sostenerla serve emettere titoli di debito comune per 800 miliardi di euro di «investimenti necessari», «una stima prudente» perché «non include investimenti per la mitigazione del cambiamento climatico e altri obiettivi importanti». Infine, si fa per dire, c’è il problema della difesa comune: potremmo essere lasciati soli «a garantire la sicurezza in Ucraina e nella stessa Europa».

Ma oltre i problemi ci sono le soluzioni, possibili se comuni: per esempio una politica di «attrarre le aziende europee a produrre di più negli Usa, basate su tasse più basse, energia più economica e deregolamentazione». Insomma, «il mondo confortevole è finito», non essere capaci di trovare soluzioni, o dire «no a tutto» sarebbe «ammettere che non siamo in grado di mantenere i valori fondamentali dell’Ue».

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