La scena è un po’ fantozziana, la prima a parlare, nella sterminata sala degli arazzi di Lilla, già stanza da letto della Regina Margherita, è Mariolina Castellone, Cinque stelle. Comincia con una ampia prolusione, allarga il discorso alle emergenze del paese. Ma l’ha presa larga, non riesce ad arrivare al dunque. Prova Paolo Barelli, Forza Italia, anche lui è po’ impacciato: «Presidente sappiamo che ha fatto gli scatoloni però...».

A questo punto parla la capogruppo del Pd Debora Serracchiani. La situazione è grave ma non seria: i capigruppo della maggioranza sono saliti al Quirinale chiedendosi con quali parole si chiede a Sergio Mattarella di accettare la rielezione, ovvero di rappresentare la volontà del parlamento, a lui che per 15 volte ha detto che non l’avrebbe rifatto. I partiti di una maggioranza troppo larga non ce l’hanno fatta a trovare un altro presidente “super partes”.

Ma qui, al Quirinale, siamo alle forme. La sostanza dell’ambasciata a Mattarella l’ha portata Mario Draghi la mattina, al Quirinale, al giuramento del giudice Patroni Griffi. Era chiaro dall’inizio che Mattarella era l’unico altro presidente che Draghi si augurava, l’unico a parte sé stesso.

Torniamo sotto gli arazzi. A differenza del 2013, quando a pregare Giorgio Napolitano sono stati tutti i leader politici, sfilando in processione al Colle, Berlusconi e il leghista Maroni in testa, stavolta sono andati i capigruppo di maggioranza. C’è chi dice che Mattarella non voleva vedere i leader politici. Certo ha tolto d’imbarazzo Matteo Salvini, che in passato gli ha dato del «cattocomunista» e del «presidente degli immigrati». Davanti ai capigruppo il presidente resta in cordiale ma implacabile silenzio.

A questo punto Loredana De Petris, Leu, senatrice combattiva ma donna concreta, fa con le mani fa il semplice gesto della preghiera. Il presidente uscente e rientrante, il secondo – consecutivo – della storia della Repubblica, sorride, moderatamente: «Avevo altri programmi, ma rispetto il parlamento». Ed è vero, o almeno è un pezzo della verità, che è stato il parlamento a richiamare in servizio Sergio Mattarella, che aveva preparato gli scatoloni per il nuovo ufficio e la nuova casa. I grandi elettori hanno fatto da sé, o quasi. Sicuramente all’inizio.

Per Mattarella sono arrivati 16 voti alla prima chiama, 39 alla seconda, 126 alla terza, 46 alla quarta (sembra poco, ma in questa chiama la sinistra si è astenuta), 166 alla quinta, 336 alla sesta, 387 alla settima, ma qui ormai l’accordo delle forze della maggioranza era fatto. All’inizio erano solo Cinque stelle «peones», poi si è unito il gruppetto di punta dei dem pro Mattarella, quelli che ieri si danno appuntamento all’una in Transatlantico: Stefano Ceccanti, Matteo Orfini, Fausto Raciti, Walter Verini. Tutto il gruppo di Leu. Ora sono «todos mattarellianos», fino a tre giorni fa l’aria era un’altra.

Gli altri tentativi

Alle ultime chiame, quando i voti dovevano lievitare per mandare un segnale fino al Colle più alto, hanno lavorato – nonostante ufficialmente il Pd continuasse a votare scheda bianca – Luigi Zanda e Graziano Delrio. Con il via libera di Enrico Letta. Mattarella è stato rieletto ieri, dopo una settimana di colpi di scena e totonomi impazzito. Un tempo in cui la coalizione di centrodestra ha bruciato tutti i suoi candidati fino a spaccarsi in tre; ma anche i giallorossi sono arrivati a un passo dal lancio degli stracci, a dispetto delle dichiarazioni e delle scene di esultanza in aula e in Transatlantico, quando, alle otto di sera, viene scrutinata la scheda numero 505. Finirà con 759 voti.

La notte prima si consuma a strappi e telefonate. Dopo la smusata della bocciatura di Maria Elisabetta Casellati, venerdì 28, Matteo Salvini dice ai giornalisti che «si lavora su una donna». Altrettanto fa Giuseppe Conte. È l’ultima, ennesima, intelligenza fra i due ex alleati. Alludono a Elisabetta Belloni, capo del Dipartimento informazioni per la sicurezza, anche Grillo twitta il suo nome. Matteo Renzi, Leu e un pezzo del Pd e Luigi Di Maio stoppano: no a un capo dei servizi segreti al Quirinale. Nella notte si tratta ad oltranza, in apparenza la rosa resta ampia (Severino, Cartabia, Amato, Casini) in realtà c’è solo un nome, ma è fortissimo, quello di Pier Ferdinando Casini.

Su lui converge una parte consistente di Forza Italia, che nella notte ha annunciato trattative «autonome» rispetto a Lega e Fratelli d’Italia, e anche le formazioni centriste di destra. Ma il suo grande sponsor è Matteo Renzi, ma da dentro il Pd c’è una corrente fortissima di consenso su di lui, capitanata dal ministro Dario Franceschini. Per qualche ora sembra tornati al febbraio 2014, quando l’attuale ministro della cultura portò a palazzo Chigi l’ambasciata del partito, la richiesta di dimissioni di Enrico Letta, presidente del consiglio. Se Casini sarà presidente, Renzi avrà vinto di nuovo, e anche i suoi amici dell’epoca.

Ma stavolta la storia va diversamente. L’appuntamento dei leader è alle nove di mattina al gruppo dei Cinque stelle. Davanti ai grandi elettori Enrico Letta preannuncia: «Se non ci sarà l’accordo di maggioranza, sosterremo la saggezza del parlamento». Alla riunione dei big Renzi prova a forzare su Casini. Letta si alza e lascia la riunione.

Lo stesso Casini parla dalla sala stampa della Camera e fa un passo indietro: «Togliete il mio nome dalla rosa della presidenza». E lui stesso fa un appello a Mattarella. Poco dopo Matteo Salvini capitola: «A questo punto la squadra resti quella che è, Draghi a palazzo Chigi e Mattarella al Colle». Giorgia Meloni, sarcastica, annuncia: «Non voglio crederci, Salvini chiede a tutti di pregare Mattarella di tornare».

Disfatta a destra

Per il centrodestra finisce malissimo. Le conferenze stampa si rincorrono. Giorgia Meloni, che non vota il vecchio nuovo presidente, arrota le armi dall’opposizione ma intanto spara tweet a raffica: «un parlamento che dimostra di non essere all’altezza degli italiani che dovrebbe rappresentare».

Nella Lega scoppia un mezzo psicodramma. Il ministro Giorgetti sembra annunciare le dimissioni («Via dal governo? Un ipotesi») ma poi fa marcia indietro. Il coordinatore forzista Antonio Tajani guarda alle altre forze di centro: «Puntiamo a rafforzare le posizioni politiche moderate, Mi auguro che questo forte coordinamento dell’area popolare possa andare avanti».

Ma anche a sinistra le cose non vanno benissimo. L’unico a raccontarla in rosa è Enrico Letta, che segnala anche nuove convergenze con Forza Italia. Ai suoi raccomanda di sorvegliare i toni, in conferenza stampa ha parole buone per tutti. Nega conflitti con Conte: «È evidente che in questi giorni ci sono state frizioni con tutte le forze politiche e anche all’interno della coalizione, ma la nostra coalizione che resiste e esce in parte rafforzata. Ci sono stati chiarimenti, necessari, ma per me sufficienti».

Invece Matteo Renzi attacca apertamente Conte e Conte attacca Renzi, ma a ben vedere anche Letta: quelle di Renzi «sono fesserie», «la trattativa sulle figure femminili è stata condotta a tre: Salvini, Conte e Letta, nonostante fossi stato delegato dalla coalizione a incontrare Salvini». Letta non replica. Poi Conte scende in Transatlantico per abbracciare l’alleato a favore delle telecamere. Alla fine della settimana di passione al Colle resta tutto com’è. Ma è difficile che succeda lo stesso nella maggioranza di governo, e a palazzo Chigi.

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