Fino a qualche mese fa, la geopolitica era qualcosa su cui il centrodestra poteva permettersi di non avere una linea comune. Prima venivano le questioni interne: dalle tasse, all’immigrazione e la giustizia. Oggi, con una guerra alle porte dell’Europa e le geometrie internazionali in movimento, ogni considerazione smette di essere pura teoria e diventa una presa di posizione che spezza il già precario equilibrio interno all’alleanza.

Tra i due contendenti la leadership, Giorgia Meloni è quella che si sta sicuramente muovendo con più abilità. Se il segretario della Lega Matteo Salvini sembra non essersi più ripreso da quell’appannamento iniziato con il voto per la presidenza della Repubblica, Meloni sta invece portando avanti un preciso percorso di autoaffermazione sia in Italia sia, soprattutto, all’estero.

In Italia lo spartiacque è stata proprio la rielezione di Sergio Mattarella al Colle. Meloni ha scelto di lasciare campo libero a Salvini, autoincoronatosi come regista e convinto di poter portare al Quirinale il primo presidente di centrodestra. La débâcle – dal pasticcio sulla candidatura della presidente del Senato, Elisabetta Casellati, alle conferenze stampa in solitaria – hanno permesso a Meloni di capitalizzare al massimo l’occasione. Prima con il voto di bandiera al giurista Carlo Nordio in segno di compattezza, poi con il mancato sostegno a Mattarella ma con la certezza della sua rielezione. Risultato: Meloni ha potuto ribadire il mito della «coerenza» come parola d’ordine di Fratelli d’Italia, unico partito di opposizione, e ha visto crescere i sondaggi in suo favore, in parallelo con il calo della Lega.

L’atlantismo

Davanti ai tentennamenti leghisti sulla guerra in Ucraina, Meloni ha puntato su un fermo atlantismo: il risultato è stato l’ordine del giorno sull’aumento al 2 per cento delle spese militari presentato come opposizione, che ha quasi aperto una crisi di governo.

Svolta dell’ultimo minuto strumentale al conflitto in corso? «Ma quale svolta atlantista: nel 2013 noi abbiamo scritto quelle che chiamiamo le “tesi di Trieste”», dice il senatore di Fratelli d’Italia, Giovanbattista Fazzolari, responsabile del programma del partito e considerato il più affidabile consigliere di Meloni sulle questioni di politica estera. «Lì abbiamo scritto che sosteniamo l’Italia come parte del blocco atlantico all’interno della Nato, ma anche che il rapporto dentro l’alleanza va riequilibrato. Noi crediamo nel modello di una colonna europea di difesa: la Nato è sì sovrapponibile agli Stati Uniti, ma non è più vero che gli interessi geopolitici statunitensi coincidono totalmente con quelli europei, visto che il loro baricentro si è spostato verso il Pacifico».

Da qui – e da tempi non sospetti dunque – nascerebbe l’idea della necessità di aumentare l’impegno per le spese militari, in linea con i parametri Nato. Concetto impopolare fino a quando in Ucraina non sono comparsi i carri armati russi, rendendo attuale la questione del riarmo e soprattutto riattivando gli arrugginiti ingranaggi della Nato.

Ma soprattutto da quelle valutazioni di quasi dieci anni fa avrebbe preso forma anche il progressivo spostamento di Fratelli d’Italia in Europa, culminato con l’elezione di Meloni alla guida del gruppo dei Conservatori europei. Una collocazione, questa, che le sta dando sempre più forza grazie all’eclissi della stella dei sovranisti europei e che la ha collocata fuori dalla lista che in Unione europea viene considerata dei cattivi: quella degli euroscettici come Salvini e Marine Le Pen.

Il voto francese

Proprio il primo turno di presidenziali in Francia ha reso palese la divaricazione dentro il centrodestra e l’assenza – confermata anche internamente – di un coordinamento in tema di politica estera e di visione generale.

Il quadro è singolare: Forza Italia, dentro il Partito popolare europeo, sostiene Emmanuel Macron; la Lega, dentro il gruppo Identità e democrazia, è vicina a Marine Le Pen; Fratelli d’Italia invece guida i Conservatori e aveva in Éric Zemmour il suo rappresentante.

Di qui la scelta di Meloni di non congratularsi con Le Pen per aver raggiunto il ballottaggio che, tradotta, ha significato una chiara presa di distanza dal sovranismo. E anche questa viene rivendicata come scelta strategica che viene da lontano. «Ci allontanammo da Le Pen quando eravamo al 4 per cento, pur se un partito come il nostro avrebbe avuto grande facilità e anche un grande vantaggio elettorale a sovrapporsi al movimento lepenista, sfruttandone la spinta», si ragiona nello staff di Meloni. Invece, la scelta sarebbe stata quella di marcare la propria distanza da quel tipo di sovranismo oggi percepito come in declino: «All’epoca la scelta ci ha penalizzato, ma con il tempo quella lungimiranza sta pagando».

Proprio la distanza dal sovranismo lepenista ha permesso a Meloni (e invece lo ha reso molto più complicato per Salvini) di collocarsi in modo chiaro in favore dell’Ucraina, rimanendo in linea con l’alleato privilegiato in Europa, i polacchi del Pis del premier Mateusz Morawiecki, che per ovvie ragioni guida un governo fortemente antirusso. Le Pen, Salvini e tutto il gruppo Identità e democrazia, invece, faticano ora a prendere le distanze dal legame con la Russia di Vladimir Putin.

Il feeling con Letta

Proprio questo grande lavoro di posizionamento estero, sulle direttrici del patto atlantico e del conservatorismo europeo, ha permesso a Fratelli d’Italia di trovare un insperato interlocutore politico nel Partito democratico. Pur su posizioni opposte sia in Italia sia in Europa, il Pd di Enrico Letta considera Meloni un’interlocutrice privilegiata e in questo è ricambiato.

In questi giorni, sul Foglio, è stato pubblicato uno scambio a distanza proprio tra i due leader e Meloni ha addirittura detto che «c’è più di un punto di contatto fra il pensiero di Enrico Letta e il mio», riferendosi al manifesto in 7 punti sull’Europa del futuro presentato dal leader dem.

Il riconoscimento reciproco, secondo chi conosce Meloni, si origina nel fatto che le due forze parlerebbero un linguaggio simile sul piano politico, affondando entrambi in radici novecentesche. «In Letta, Giorgia vede un avversario ma anche un interlocutore perché il Pd è l’unico partito con una visione chiara, in un contesto nel quale tutte le altre forze politiche si muovono confusamente».

Quella di Meloni non sarebbe piaggeria. Nella visione della leader di FdI, descritta anche nella sua autobiografia, il futuro politico italiano è quello di un ritorno al bipolarismo, i cui poli graviteranno uno intorno al Pd e uno intorno a FdI. Il punto focale della contrapposizione politica, infatti, sarà la visione di quale Europa costruire: da una parte il modello confederale di FdI, che riconosce la necessità di difendere l’identità nazionale e quindi la sovranità dei singoli stati; dall’altra il modello federato del Pd, che punta a superare gradualmente le identità nazionale per far confluire i singoli nazionalismi in una più vasta identità europea. Nessuno spazio, quindi, per il sovranismo che sta esaurendo la sua carica di rottura o per l’euroscetticismo ancora presente in ambienti vicini alla Lega.

Questo orizzonte sarà tanto più vicino quanto più i sondaggi ora favorevoli a FdI si tradurranno in voti alle prossime elezioni politiche. Lo scenario è in continuo mutamento, la legge elettorale potrebbe cambiare ma soprattutto l’alleanza con Lega e Forza Italia è ancora in piedi, almeno formalmente. Questo è il vero irrisolto che Meloni non ha ancora affrontato e sta abilmente nascondendo. Con due scenari possibili, legati al futuro politico di Salvini: FdI può diventare il partito leader oppure venir tagliato fuori.

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