Atreju, l’invito di Meloni a Schlein finisce in beffa: «Sì al confronto, ma anche con Conte»

Finisce in un vaudeville la storiella degli inviti alla festa di Atreju: Elly Schlein aveva accettato con riserva, a patto di fare un confronto con Giorgia Meloni; Giuseppe Conte si era un po’ irritato, anche perché lui aveva accettato senza porre condizioni. Dopo una giornata di punzecchiature reciproche a sinistra, Giorgia Meloni si è presa il gusto di sfottere i suoi avversari rissosi. Ma facendo la faccia seria: «Sono pronta a confrontarmi con l’opposizione. Ma ritengo che al confronto debba partecipare anche Conte. Per due ragioni: la prima è che Giuseppe Conte, a differenza di Elly Schlein, anche negli anni passati è venuto ad Atreju senza imporre alcun vincolo. Lo ha fatto anche da presidente del Consiglio. La seconda è che non spetta a me stabilire chi debba essere il leader dell’opposizione, quando il campo avverso non ne ha ancora scelto uno. Da parte mia, quindi, sono disponibile a un confronto unico con entrambi». Non solo accetta il confronto, ma anche due contro uno. A stretto giro Conte fa sapere: «Non mi sottraggo, ci sono». Enigma primarie nel centrosinistra: tutti “disponibili” nessuno le vuole fare Mossa e contromossa Ora si aspetta la decisione di Schlein. Eppure la sua mossa sembrava azzeccata. Sia se la premier avesse risposto no («il programma delle nostre feste non lo fanno gli invitati», che è la frase che ha circolato con stizza tutto il giorno a palazzo Chigi). Sia che avesse preparato un palco vista Castel Sant’Angelo per la sfida fra le due donne. Nel primo caso il Nazareno aveva già pronte le dichiarazioni in coro sulla premier «che scappa dal confronto»; nel secondo caso, comunque fosse andato il match, anche malissimo per la leader Pd, sarebbe valso il riconoscimento reciproco delle due avversarie. E nell’elettorato di sinistra la foto di Meloni che discute con Schlein, secondo gli strateghi del Pd, vale come le primarie di coalizione. O poco poco meno. Dopo le regionali la segretaria Pd ha fatto qualche passo avanti sul tema della premiership. Ha spiegato che o vale «la regola della destra», cioè fa il premier chi prende un voto in più, o ci sono altre modalità, come le primarie, a cui si è dichiarata «apertissima». La questione in teoria non è all’ordine del giorno, anzi è rimandata a dopo il referendum sulla giustizia. Se non all’estate del 2026, come fa capire Giuseppe Conte. Schlein non ha nessuna fretta. Perché nel frattempo si muove già come la candidata premier. Così ieri, con la questione del preteso confronto a tu per tu con Meloni a Atreju, aveva fatto saltare i nervi un po’ a tutti gli altri leader del centrosinistra, a loro volta invitati, ma come ballerine di fila. In particolare a Conte. Il presidente M5s da mane a sera, prima con un’intervista al sito del Foglio e poi parlando con i cronisti a Montecitorio, ha ricordato – forse proprio all’indirizzo di Meloni – che lui ci aveva provato, a fare il faccia a faccia con la premier, «già l’anno scorso», in quel caso aveva sondato FdI. Ma poi, ricevendo un niet, si era ritirato in buon ordine nella sua poltroncina di ospite. Come altri: se Nicola Fratoianni non va alla festa, Angelo Bonelli ci va («io sono stato invitato al dibattito con il ministro Urso sul Green deal e ci andrò»). Però la collega verde Luana Zanella chiede alla segretaria del Pd, e non al suo portavoce, di non andare: perché la premier ha tradito il patto sulla legge del «consenso espresso». Insomma, una babele. Ce n’è abbastanza, da destra, per ridere delle solite bagarre a sinistra. Che peraltro sono anche una formidabile campagna pubblicitaria per l’evento. E gratis. Solo che Meloni stavolta ha fatto di meglio: ha ribaltato addosso ai due leader del centrosinistra le loro gelosie, e l’atteggiamento poco da squadra. La sfida di Schlein, costruire l’unità nei «luoghi che non contano» Polarizzare stroppia Perché dal giorno dopo i risultati della ultime regionali, e cioè da martedì scorso, è chiaro che Schlein adesso vuole “polarizzare”: cioè fare in modo che la sfida elettorale sia innanzitutto fra Meloni e lei. Anche se lei non è ufficialmente leader della coalizione. Anche se la parola «polarizzazione» fin qui non ha portato bene a sinistra: è associata alla sfortunata campagna elettorale di Enrico Letta, nel settembre 2022, quella del «rosso e nero», di «Scegli», e cioè il tentativo di sfidare direttamente l’aspirante premier, che era già Giorgia Meloni, senza a sua volta essere a capo di una vera coalizione. Fu un mezzo disastro. Schlein se lo ricorda bene perché c’era: Letta l’aveva voluta a fianco a sé sul palco della chiusura della campagna elettorale a piazza del Popolo, da dove lei aveva ribaltato gli slogan di «Sono Giorgia», donna, madre e cristiana: «Sono una donna, amo un’altra donna e non sono una madre. Ma non per questo sono meno donna». Andò come andò, cioè male, ma intorno alla segretaria circolano ragionamenti che puntualizzano che alle prossime politiche tutto sarà diverso rispetto al 2022. A partire dalla condizione numero uno: ci sarà una coalizione ampia. E lei ne sarà la leader: se non cambia la legge elettorale, non ci sarà bisogno di formalizzazioni, se cambia si troverà il modo di spiegare all’alleato M5s che il Pd pesa il doppio, quindi esprime la premier. Pazienza per quelli che si scaldano a bordo campo, secondo il Nazareno: Gaetano Manfredi, Silvia Salis, Ernesto Ruffini. Conte invece ha affidato la scommessa della sua campagna, anche da aspirante candidato premier, sul referendum costituzionale sulla giustizia. Ha anticipato la partenza della campagna referendaria dalla Sicilia, senza aspettare le indecisioni degli alleati dem. La questione sta nelle sue corde. E meno in quelle della segretaria. Che, a proposito, se volesse “polarizzare” lo scontro con la premier sul quesito avrebbe anche un tallone d’Achille nuovo di zecca: l’ex presidente pugliese Michele Emiliano, dopo più di vent’anni di politica, chiede di rientrare nei ranghi della magistratura. Non proprio uno spot a favore dell’indipendenza delle toghe.