L’attendismo regna sovrano, «ma anche il non dire nulla è una risposta». Il commento è di un uomo della maggioranza che sta seguendo da vicino il dossier delle banche e vede il silenzio che è calato sulla vicenda, dopo gli screzi tra Lega e Forza Italia, come una presa di posizione di Giorgia Meloni già di per sé significativa.

Antonio Tajani e Giancarlo Giorgetti hanno puntato i piedi, ciascuno dal proprio lato della barricata, ma mentre filtra una certa disponibilità della premier a rimettere mano alle stringenti condizioni imposte a Unicredit sull’ops nei confronti di Banco Bpm – che ha fatto saltare sulla sedia Giorgetti e dà speranze a Tajani – in Fratelli d’Italia invitano alla calma.

La ragione è presto detta. All’orizzonte si staglia l’appuntamento del 4 giugno, quando davanti al Tar si celebrerà la prima udienza sul ricorso contro il decreto Golden power. «La giustizia amministrativa potrebbe togliere le castagne dal fuoco a Meloni e liberare la strada per la prosecuzione dell’operazione di Orcel» ipotizza chi conosce bene i dettagli del dossier.

I timori di Giorgetti

Se infatti il Tar dovesse deliberare “contro” gli interessi di Banco Bpm (e quindi della Lega) il ministro dell’Economia ne uscirebbe con un metaforico occhio nero. Anche se, perfino nel suo partito, c’è chi osserva con perplessità l’insistenza di Giorgetti su Banco Bpm, «visto che ora il nostro cavallo è Mps». In caso di decisione sfavorevole del Tar, di fronte al governo si aprirebbe la strada di un ricorso al Consiglio di stato, ma quello, ragionano, «è un altro paio di maniche che comunque sposterebbe tutta la decisione parecchio più in là».

Resta il fatto che in Fratelli d’Italia sono freddi rispetto all’agitazione di Giorgetti, peraltro ancora privo del sostegno del suo nuovo direttore generale, Francesco Soro, che prenderà servizio soltanto la prossima settimana. «Dice che “le dimissioni si danno e non si minacciano”, poi è il primo a riempirsene la bocca...» dice un parlamentare. «Intanto, il loro uomo alla Consob ha agito addirittura contro i loro interessi».

Il voto che ha deciso il 3-2 sull’opportunità di concedere la sospensiva chiesta da Orcel all’authority non è passato inosservato dai meloniani, che continuano a non perdonare al presidente Paolo Savona di essersi messo di traverso rispetto alle decisioni del governo. Giovedì, intanto, una provvidenziale combinazione di impegni d’aula e di altre commissioni ha fatto saltare l’audizione di Savona in commissione Banche al Senato.

L’intervento va ora riprogrammato (con il rischio che a essere audito come presidente Consob sia qualcun altro, visto che Savona ha messo le proprie dimissioni sul piatto). La data per il momento resta da decidere. Il calendario della commissione è pieno e sono previste audizioni sino al 26 giugno, quando dovrà essere ascoltata una rappresentanza del ministero, che non dovrebbe essere però il ministro Giorgetti.

Insomma, l’aspettativa dei meloniani è che le cose si risolvano da sé, o quantomeno la temperatura si abbassi. Mai del tutto convinti dell’opportunità di applicare il golden power, la premier e il suo braccio destro, Giovanbattista Fazzolari, continuano a motivare la scelta con la non italianità di una parte del capitale di Unicredit, ma sembrano ormai orientati a rimettere mani alle condizioni stringenti stese per Orcel. Senza arrivare a soddisfare necessariamente le richieste di Tajani, che vorrebbe quantomeno garanzie sulle tempistiche concesse per l’uscita dal business russo dell’istituto di credito, la premier sa di rischiare forte se dovesse continuare lungo la linea leghista.

Il timore è quello di incartarsi in una partita con avversari di un certo peso: qualcuno arriva a paragonarlo, con le dovute proporzioni, allo scontro di Donald Trump con la magistratura sui dazi. E poi c’è il rischio di un’indagine di Bruxelles sull’impiego del golden power, sempre più frequente da inizio legislatura. Meloni non si può permettere di mettere a rischio quello strumento, meglio ammorbidire progressivamente la propria posizione.

Dalle opposizioni continuano a osservare con perplessità. «L’approccio interventista del governo sul risiko bancario sta producendo pasticci inguardabili. L’uso abnorme della golden power su UniCredit-Bpm in particolare è inaccettabile, va revocata prima che si schianti contro la giustizia amministrativa o contro le regole europee» dice il responsabile economia del Pd, Antonio Misiani. Mentre Matteo Renzi arriva ad accusare il governo di usare il golden power «come un paese statalista, non liberale».

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