Sul ter dei presidenti l’alert del Colle: un decreto non è ipotizzabile. Ma De Luca spera. In Puglia Decaro alle prese con i predecessori
Era solo un assaggio il sarcasmo della premier su Instagram sui referendum, e la presa in giro alla segretaria Pd: «Elly Schlein dice che i voti del referendum dicono no a questo governo…». La leader dem ha risposto piccata, dandole dell’incoerente e ripescando un post di Giorgia Meloni contro Matteo Renzi, ai tempi del quesito sulle trivelle, perso, come quelli dello scorso weekend: «Il premier abbia la decenza di rispettare chi si è recato oggi alle urne perché sono sempre più italiani rispetto a quelli che hanno votato lui per andare a palazzo Chigi. Il governo ha fatto di tutto per favorire l’astensionismo e non far raggiungere il quorum».
Risposta azzeccata. Se non fosse che la premier ormai francamente se ne infischia delle accuse di incoerenza. Anche perché ha in canna ben altro per mettere nei guai Schlein e compagni. Ha aspettato il risultato delle urne per affondare il colpo. Anzi, i colpi: perché sono due le armi per provare a far esplodere quell’ipotesi di coalizione che il Pd sta faticosamente mettendo insieme. E per la sinistra sono due armi fine di mondo.
Paura del terzo mandato
L’arma letale per la sinistra è l’apertura di palazzo Chigi al terzo mandato dei presidenti di regione. È bastato farne circolare l’ipotesi, tramite Giovanni Donzelli, per far ballare i tavoli della coalizione in Campania e in Puglia. Fonti vicinissime a Meloni assicurano che, pur dopo aver bocciato il ter, ora ha davvero cambiato idea. Non solo per chiudere il conflitto con la Lega sul candidato veneto, concedendo il tris a Luca Zaia. La cosa non fa felice Matteo Salvini che, al netto delle affermazioni tonitruanti, considera sacrificabile il presidente a patto di mantenere al suo partito il candidato. Infatti ieri pomeriggio, al Consiglio federale della Lega, se n’è discusso con toni curiosamente laici. «Se Forza Italia è contraria andrò a vedere cosa vuole in cambio», ha detto il vicepremier. Ma le facce perplesse di Lorenzo Fontana e di Alberto Stefani, quest’ultimo il candidato del cuore del vicepremier, dicevano tutto.
FdI è pronto ad andare avanti, nonostante Antonio Tajani ieri abbia scomodato Hitler e Mussolini per sostenere il suo no, scatenando una salva di rispostacce della Lega. Ma la premier se n’è convinta quando le hanno disegnato plasticamente gli effetti del sì al terzo mandato sul centrosinistra: un grande boom con tante stelle filanti. Metti in Campania: Roberto Fico è già in corsa da candidato presidente.
Manca la benedizione dell’uscente Vincenzo De Luca, ma i suoi si sono già trasferiti armi e bagagli con il nuovo che avanza. Ora, da quando ha cominciato a circolare la possibilità del terzo mandato, il tempo si è di colpo rallentato. Per il Pd in teoria non cambia niente. «Per noi, per i vertici monocratici come presidenti di regione e sindaci, il limite dei dieci anni è prima di tutto una regola interna che si è dato il Pd e che per Schlein è un punto fermo», ha ribadito ieri Francesco Boccia.
Ma vaglielo a spiegare a De Luca, che si era piegato solo di fronte a una sentenza della Consulta. Ora cambierebbe tutto. E l’alleanza con M5s esploderebbe come un fuoco artificiale. Comunque Donzelli è cauto: «Cerchiamo di tenere unita la coalizione. È una riflessione laica». Laica non tanto per il no di FI, ma per un messaggio riferito da chi parla con il Colle, la cui sostanza è: non c’è nessuna obiezione costituzionale al terzo mandato, ma un decreto è improponibile. Palesemente non ci sono i requisiti di urgenza. Dunque dovrebbe votarlo il parlamento. Con i suoi tempi. Che sforerebbero l’autunno delle regionali. E rimandare il voto, altra ideona scaturita da palazzo Chigi, è stato fatto di recente: ma perché c’era il Covid.
Del terzo mandato basta la parola anche in Puglia. Dove Michele Emiliano ci ha sperato fino all’ultimo, e ora ci rifà un pensierino. Tutti i giochi si riaprirebbero. Lì peraltro i giochi non sono ancora per niente chiusi. Il candidato naturale Antonio Decaro al momento si considera in stand-by: perché il presidente uscente vuole candidarsi come consigliere. E altrettanto vuole fare il suo predecessore Nichi Vendola. Quindi l’ex sindaco di Bari si troverebbe a dover governare con due suocere, e di che peso, in Consiglio. Decaro declina senza tentennamento: «In questo caso io non ci sarei, fare l’europarlamentare mi piace moltissimo».
La legge elettorale
Se il terzo mandato non andasse in buca, la riforma elettorale è certa. Meloni sa che se alle prossime politiche la destra avesse come avversario il «campo largo», la vittoria non sarebbe scontata come nel 2022. Anche nel formato “small” Pd-M5s-Avs. I conti sono presto fatti, spiega Federico Fornaro (Pd): «Sulla base dei dati delle politiche del 2022, quindi con un risultato basso del Pd, anche un campo largo “ristretto” darebbe risultati molto differenti nei collegi uninominali del Rosatellum. Anche in molti collegi della Toscana e dell’Emilia-Romagna ha vinto la destra per le divisioni della sinistra. Negli uninominali il 4 o 5 per cento disperso ha significato la sconfitta della sinistra a Modena, per esempio. Una coalizione anche stretta aumenta la contendibilità del Centro-Nord e garantisce la vittoria in molte realtà del Sud».
È questo che teme Meloni. E per questo vuole una legge proporzionale che superi i collegi. Ma il core business di questa riforma sarebbe l’obbligo di indicare il candidato premier. A destra la cosa è irrilevante: la distanza fra FdI e Lega e Forza Italia è incolmabile, Meloni è ormai la candidata naturale. A sinistra le cose starebbero nella stessa maniera, se fosse accettato (o solo affrontato) il criterio dei numeri, e cioè che il Pd è il primo partito e dunque gli spetta l’indicazione del premier. Ma così non è: per Giuseppe Conte il tema «è prematuro». Per non dire indigesto.
Nel giro dell’ex premier viene fatto notare che gli ultimi sondaggi danno il M5s in netta ripresa intorno al 15 per cento, con il Pd poco sopra il 22: non una distanza abissale. E poi Conte è convinto che una campagna elettorale con l’indicazione «Schlein premier» demotiverebbe un pezzo importante del suo elettorato. Quello che sabato scorso a Roma, da sotto il palco di piazza San Giovanni, scandiva «presidente, presidente». E non intendeva «presidente del Movimento».
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