A mezzogiorno Maurizio Landini sale sul palco del Palacongresso di Rimini e fa la faccia cattiva con i suoi: «Saper ascoltare è la condizione per essere ascoltati». Sta per arrivare Giorgia Meloni, il segretario è sicuro che nessuno la fischierà, ma non si sa mai. Fuori l’accoglienza alla premier è stata amara ma tutto sommato a contestare sono una quarantina su mille delegati.

Le sindacaliste si sono appese al collo orsetti di peluche, strumento della contestazione del governo a Cutro. Nella strage sono morti almeno 33 bambini. Landini ringrazia la premier: «Non vogliamo essere spettatori del cambiamento ma protagonisti. Per questo l’abbiamo invitata». Già, perché l’ha invitata? È una prassi, viene spiegato, i premier sono stati sempre invitati. Il sì di Meloni è benvenuto: serve a dimostrare che la Cgil è un interlocutore di palazzo Chigi, anche ai tempi della destra. E Meloni perché ha accettato?

Per dimostrare di essere all’altezza del suo ruolo, anche davanti alle parti sociali più distanti. Insomma la legittimazione è reciproca: ma sarà lei a portare a casa il dividendo migliore, a capitalizzare meglio la passerella che le viene offerta. In realtà quando esordisce Meloni è la leader di destra di sempre. Non si sorveglia, fa le sue faccette: perché deve aspettare che la minoranza Cgil sciami dalla sala urlandole «Bella ciao» a pugno chiuso. Lei ringrazia anche chi la contesta, ma con sarcasmo: alcuni manifesti le dicono “Pensati sgradita”, citazione sanremese dell’influencer Chiara Ferragni: «Non pensavo che la Ferragni fosse un metalmeccanico».

È da 27 anni che un premier non va a un congresso sindacale: lei, la prima premier di destra, dice che non dubita di fare meglio della sinistra. Finiti i convenevoli, però, spara una serie di no alle proposte della Cgil: per aumentare i salari «la strada è la crescita economica», lo Stato ha il compito di fare «regole giuste» e «redistribuire la parte che gli compete», ma di redistribuzione non parla; «il merito è l’unico vero ascensore sociale»; il salario minimo legale «può diventare una tutela non aggiuntiva ma sostitutiva» meglio «estendere i contratti collettivi, combattere i contratti pirata, ridurre il carico fiscale sul lavoro». Landini chiede il ritiro della riforma fiscale, e anche qui arriva un no: la legge è stata «un po’ frettolosamente bocciata da alcuni», cioè da lui, invece «ha importanti novità per i lavoratori dipendenti».

La finzione del dialogo

Promette che si confronterà sulla lotta alla denatalità per la quale il governo prepara «un piano imponente» che – deve dirlo a scanso equivoci – conterrà incentivi a chi assume neomamme. Su «un sistema di ammortizzatori sociali universali» che però resta vago. Cita la legge Biagi, che in realtà era la legge Maroni e aveva introdotto famigerati contratti «co.co.pro» (e infatti non era piaciuta alla Cgil); e così può dire, ricordando il giuslavorista ucciso nel 2002, che sperava fosse finito «il tempo della contrapposizione ideologica feroce» e invece no.

Fa due esempi, secondo lei paralleli: un anno fa «l’assalto dell’estrema destra alla sede Cgil» – qui prende il suo unico applauso -, oggi «le minacce dei movimenti anarchici che si rifanno alle Br». Si toglie anche lo sfizio di decantare le lodi del presidenzialismo, a cui la platea è allergica. Per essere il giorno del dialogo, non c’è nulla su cui dialogare. Resta il bel gesto di aver accettato l’invito, ma le è utile a scansare l’accusa di snobbare i lavoratori. «Su alcune cose sarà più facile trovare condivisione, su molte altre sarà difficile» ma, concede, «rivendicate senza sconti, le istanze troveranno un impegno senza pregiudizi».

Se ve va nello stesso gelo in cui è arrivata. Sparuti applausi di cortesia, frenati dal sospetto che nello scambio di gentilezze Landini-Meloni sarà lei a guadagnarci.

Non a caso la destra di governo rivendica con orgoglio il «fatto storico». Senza neanche dover dare nulla in cambio.

© Riproduzione riservata