Giorgia Meloni punta al bis a palazzo Chigi – ma questa non è una sorpresa – e sceglie come parola chiave la «stabilità», in effetti unico risultato effettivamente raggiunto dal suo governo.

All’indomani del Primo Maggio e allo scoccare dei due anni e mezzo di governo, la premier ha dato una lunga intervista all’agenzia Adnkronos in cui spazia su tutto: dalla percezione dell’Italia all’estero agli insulti sessisti nei suoi confronti, dalle riforme costituzionali alla libertà di stampa, fino al suo rapporto con Donald Trump e Ursula von der Leyen.

Quella dipinta da Meloni è un’Italia a tinte pastello, con un governo appunto «stabile», una maggioranza «coesa» e che si è guadagnata la «considerazione» internazionale. Nessuna crepa e nessuna incertezza per la premier, che però forse non a caso – alla domanda sulla riforma di cui è più orgogliosa – evita riferimenti a specifici provvedimenti e ripiega sulla risposta sufficientemente vaga da essere buona per tutte le occasioni: «Sentir dire a molti italiani che hanno ritrovato un po’ di fiducia e di orgoglio».

Del resto, al novecentesimo giorno di governo, Meloni può vantare davvero pochi provvedimenti andati in porto. Così, per la premier, il premierato «rimane la madre di tutte le riforme», ma intanto è sparito dall’agenda dei lavori parlamentari e fonti anche di maggioranza confermano che servirà un «surplus di riflessione sul testo», criticato da buona parte dell’accademia e accolto freddamente anche da una quota della maggioranza.

Lo stesso vale per «la riforma della giustizia, all’autonomia differenziata, alla riforma fiscale»: citate come «l’impianto riformatore per il quale gli italiani ci hanno votato» ma l’unica davvero sul binario giusto per l’approvazione è quella della giustizia. L’autonomia differenziata è stata decapitata dalla sentenza della Corte costituzionale, la riforma fiscale si confronta con l’asfittico quadro economico ed entrambe sono lontane dall’arrivare in porto. Non a caso, con l’intervistatore che le chiede se verrà fatto prima il ponte sullo Stretto o il premierato, Meloni se la cava con un generico «ci riusciremo» per entrambi. Prudentemente, però, senza data di scadenza (o di legislatura).

Le amnesie

Sulle questioni più scabrose o oggetto di polemica, la premier sceglie l’amnesia o il ridimensionamento. Nessun pericolo per la libertà di stampa, su cui però da ultimo ha acceso un faro il Liberties’ Media Freedom Report dopo altri studi europei. Anzi, «è tutta propaganda politica». Di più, c’è una «moltitudine di liberi organi di stampa» che «sanno fare benissimo» il proprio lavoro e «non risparmiano attacchi a me e a questo governo». Tanto da venirne anche querelati, come successo a Domani dopo alcune delle sue inchieste. E Meloni considera plurale anche l’informazione in Rai, dove «non mancano le voci critiche nei confronti del governo» e nonostante sia del mese scorso il titolo di RaiNews che aveva dato per assolto il sottosegretario Andrea Delmastro ancora prima della notizia della sentenza.

La stessa amnesia fatta di fumosi progetti entro «fine legislatura» riguarda anche le carceri. Problema non nuovo ma nemmeno affrontato dal governo, che oggi sconta anche l’assenza di una guida al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e che, nonostante il ritmo dei suicidi ormai arrivati a 33 quest’anno, ha previsto solo un aumento di assunzioni di polizia penitenziaria e qualche ridotto intervento di edilizia carceraria.

Così anche per il problema dei salari troppo bassi, evidenziato dal Quirinale nel suo intervento del Primo Maggio. Meloni non ha «sentito quelle parole, anche se riportate da alcuni organi di stampa». Del resto, il dato preferito dal governo è quello che riguarda il trend dell’aumento dell’occupazione – anche se a marzo la disoccupazione soprattutto giovanile è risalita -  mentre sui salari «abbiamo ereditato una situazione così compromessa».

Quanto al fascismo, secondo Meloni il problema non è a destra, dove «non c’è nessun imbarazzo a condannare ogni forma di dittatura e di violenza politica», ma a sinistra dove non si fa lo stesso. Anche in questo caso, sparite dalla ricostruzione sono le braccia tese agli anniversari come quello di Acca Larentia e la festa della Liberazione tramutata in festa «della libertà» per molti esponenti del centrodestra.

L’amnesia maggiore (anche nelle domande) riguarda però il ruolo degli alleati: Meloni parla al plurale ma non cita mai né la Lega né Forza Italia e i molti conflitti sotterranei che dividono la maggioranza anche nel percorso delle riforme. Nella magnificazione di metà legislatura c’è spazio solo per la premier.Tra un ringraziamento a Donald Trump – con cui si confronta «con lealtà ma senza subalternità» - perché «vuole ripristinare il Columbus Day» e una grande prudenza sul confronto tra Usa e Ue per cancellare i dazi reciproci, Meloni ha rivendicato anche una «collaborazione consolidata e un rapporto di stima ispirato alla risoluzione dei problemi» con Ursula von der Leyen. La sintesi di come in effetti l’equilibrismo tra le due sponde dell’Atlantico per ora rimanga la sua strategia più di successo.

Meloni si è concessa un unico, minuscolo, margine di autocritica rispetto all’entusiastica fotografia del presente. «Vorrei poter ottenere sulla natalità gli stessi straordinari risultati che abbiamo ottenuto sul fronte dell’occupazione e su quello del contrasto all’immigrazione», si è rammaricata. Per rimediare però ci sono molti anni a venire, se tutto va come spera la premier.

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