La premier: «Panna montata» sui rapporti tesi con la Francia. Verso le regionali, Rixi avverte: FdI non ha classe dirigente locale
Giorgia Meloni si gode un pacifico tour in Asia centrale, da cui le questioni interne alla politica italiana appaiono certamente distanti. Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan le hanno offerto una passerella con l’obiettivo di «rafforzare la cooperazione», si legge nella nota di palazzo Chigi. Si tratta di una delle strade che il governo intende percorrere per tentare di aprire nuovi mercati nei settori anche «dell’energia», in cima alla lista delle preoccupazioni dopo gli avvertimenti di Confindustria, a cui si sommano accordi economici per 7 miliardi di euro.
A guastare il clima, però, sono arrivate le domande sulle emergenze internazionali, dal conflitto tra Russia e Ucraina alla questione dei dazi americani. E Meloni è stata chiamata anche a rispondere sui burrascosi rapporti italiani con la Francia di Emmanuel Macron, a cui il vicepremier Matteo Salvini non lesina mai critiche. Nell’auspicare «un accordo cornice» tra Usa e Ue per poi scendere nei dettagli in un momento successivo, la premier ha sottolineato che incontrerà a Roma il presidente francese e ha minimizzato gli scontri a distanza: «Vedo montare molta panna su questo tema. Siamo due leader che discutono» e «Italia e Francia sono due nazioni amiche, sono due nazioni alleate, sono due nazioni che hanno posizioni totalmente convergenti su moltissimi dossier». Insomma, distanze «normali» e nessun «problema personale».
Del resto, come ha sottolineato la stessa premier, le questioni di cui discutere con i leader europei sono un’infinità. Tuttavia, la posizione italiana sul piano internazionale rimane defilata, quantomeno sulla questione del conflitto ucraino: venerdì si è tenuta una nuova video conferenza a livello di consiglieri diplomatici dei leader di Ucraina, Francia, Germania, Italia e Regno Unito. Anche su questo, Meloni è stata costretta a smentire che Roma sarebbe stata esclusa e poi reinserita grazie all’intervento del consigliere diplomatico di palazzo Chigi, Fabrizio Saggio.
Se, come il presente obbliga, la premier è sempre più impegnata a livello internazionale, i problemi interni continuano a incombere. Anzi, le comunali soprattutto di Genova – in cui la sconfitta del centrodestra brucia di più – hanno rimesso in moto il chiacchiericcio interno soprattutto in vista delle prossime regionali. I più realisti continuano a ripetere quale è il rischio: 4 a 1 per il centrosinistra, con il Veneto unica roccaforte data per certa dalla maggioranza e per questo ancora contesa per esprimere il candidato presidente.
Allarme regionali
Chi vuol fare ordine, però, sottolinea un dato: bisogna trovare nomi di candidati credibili anche nelle altre regioni, perché le vittorie si costruiscono sul campo, soprattutto a livello territoriale. In questo senso, però, emerge ancora una volta il grande limite che il partito della premier continua a scontare: l’assenza di una classe dirigente abbastanza credibile da incarnare – in piccolo – lo stesso carisma di Meloni, canalizzando su sé stessi la fiducia elettorale che la premier ancora ha.
Proprio questa consapevolezza sta dividendo Lega e Fratelli d’Italia. A chiarirlo è stato il ligure e sottosegretario Edoardo Rixi, che sulla Stampa ha offerto una analisi spietata: «È vero che FdI è al 30 per cento in Veneto, ma una cosa è quando si candida Meloni, un’altra quando si candidano politici locali. Si è visto a Genova, dove prendono il 12 per cento». Sulla base di questo presupposto, il ragionamento è chiaro: favorire candidati territorialmente forti – sul modello di Luca Zaia – a prescindere dai pesi nazionali dei partiti. Un ragionamento che in Veneto porterebbe dritto alla candidatura di un leghista invece che del senatore Raffaele Speranzon, che invece sembra il candidato designato dai meloniani.
Ovviamente il ragionamento non convince FdI, dove la premier si starebbe convincendo a usare le riforme costituzionali (il premierato in testa, che dovrebbe accelerare il suo percorso) come arma comunicativa per le regionali, con lei stessa a fare da traino. Tuttavia – anche se nessuno lo direbbe in questi termini – sono consapevoli di non poter contare su una striscia positiva di candidati scelti e ancora risuonano le bocciature dei civici Enrico Michetti a Roma e Luca Bernardo a Milano.
Dai territori, del resto, arrivano gli scricchiolii alla maggioranza che invece a Roma non si avvertono. Se in Veneto è impasse su una candidatura con molti pretendenti e ancora nessun criterio certo per definirla; in Campania si affaccia il nome di Edmondo Cirielli (FdI) ma anche di Gianpiero Zinzi (Lega) e anche dell’outsider Mara Carfagna (Noi Moderati). In Toscana, invece, il sindaco di Pistoia, Alessandro Tomasi di FdI sembrerebbe deciso a correre senza aspettare il sì di Lega e Forza Italia. Nelle Marche tenterà il bis il meloniano Francesco Acquaroli, in Puglia (nella confusione di FdI, con vari scontri nei congressi locali) potrebbe spuntarla un nome di Forza Italia.
Questione di equilibri interni, che verrà necessariamente risolta a Roma in un vertice tra i tre leader Meloni, Matteo Salvini eAntonio Tajani, per cui però non c’è ancora una data certa. Il rischio – e le amministrative appena concluse insegnano – è però che i bilancini della capitale mal si attaglino alle dinamiche territoriali. «Roma è autoreferenziale e si ascoltano meno i territori» è l’ammonimento di Rixi, che a Salvini è vicinissimo, e «se non ci impegniamo potremmo anche perderle tutte». Un impegno che dovrebbe tradursi in una de-escalation della tensione tra alleati, con collettivo ridimensionamento degli appetiti, soprattutto di FdI.
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