«Quasi un anno fa ha varato un decreto-fuffa che non aggiungeva un euro per tagliare le liste d’attesa, oggi in aula al Senato ha fatto il solito scaricabarile, questa volta addossando le responsabilità alle Regioni. Basta, la smetta di scappare e prenda atto delle conseguenze delle sue azioni: i tagli alla sanità pubblica devono finire, ci sono quasi cinque milioni di italiani che non riescono a curarsi». La segretaria del Pd replica a Giorgia Meloni che, al “premier time” a palazzo Madama, ha spiegato che non è colpa del governo se le liste d’attesa negli ospedali non si accorciano, ma appunto delle Regioni.

Schlein è deputata, dunque non è in quell’aula. Ma il fatto che dichiari a stretto giro dà la misura di quanto le opposizioni aspettavano il confronto, rimandato due settimane fa per la morte di papa Francesco. Anche, se non soprattutto, per la passerella mediatica annessa.

Giuseppe Conte, anche lui deputato, fa di meglio: si presenta al Senato e si è accomoda in tribuna da dove vuole «stare vicino» ai suoi parlamentari. Alla fine sovrastandoli davanti ai giornalisti: «Sono venuto perché volevo cercare di capire se abbiamo una premier che scende da Marte e viene sulla Terra, oppure abbiamo un ologramma».

Il confronto in aula è ruvido. Matteo Renzi, con discreta faccia di bronzo visti i trascorsi – nel 2016 ha perso un referendum costituzionale su cui aveva scommesso la sua sorte politica, poi si è “solo” dimesso da palazzo Chigi – le chiede se lei se ne andrà in caso di sconfitta ai referendum (si parla delle riforme costituzionali, il premierato e la separazione delle carriere della magistratura).

Per la premier è una battuta servita su piatto d’argento: «Senatore Renzi, non farò mai niente che abbia già fatto lei». Il capogruppo M5s Stefano Patuanelli la butta sull’ironia, declama la definizione della parola «supercazzola» tratta dall’Enciclopedia Treccani. Carlo Calenda (Azione) prende di petto le spese militari e le contesta che il ministro Crosetto «ha detto che il 2 per cento (del Pil per le spese militari, ndr) lo raggiungeremo attraverso meccanismi di spostamento di poste di bilancio: ma questo è un gioco delle tre carte».

Tema caldissimo, ma più a sinistra che a destra. Meloni assicura che il 2 per cento sarà raggiunto. M5s e Avs hanno già detto no. Anche il Pd, in teoria: ma mezzo gruppo dirigente vuole votare sì.

Il silenzio su Gaza

Dalla sinistra radicale arrivano toni più drammatici: «Lei è l’unico presidente del Consiglio europeo che non ha detto, come Trump, mezza parola su quello che sta succedendo a Gaza», attacca Peppe De Cristofaro, presidente del gruppo misto e esponente di Avs, «Perché? Un po’ perché evidentemente lei condivide la politica dello Stato di Israele, un po’ perché è talmente subalterna al presidente degli Stati Uniti che non può proferire verbo».

Il tema unisce Pd, M5s e Avs, che hanno depositato una mozione comune. In mattinata i capigruppo non hanno approvato il calendario d’aula perché la maggioranza nega un’informativa del ministro Tajani sulla crisi mediorientale e intenzioni di Netanyahu di rioccupare la Striscia di Gaza.

Il presidente dei senatori dem Francesco Boccia insiste sul tasto: «Il governo venga in aula a dirci quale è la posizione italiana su Gaza. Un ulteriore silenzio suonerebbe come complicità con le azioni criminali del governo israeliano». Pochi minuti dopo l’aula boccia la richiesta.

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