Sorridente nel rispondere ai suoi e pedante nelle elencazioni dei risultati considerati raggiunti. Nervosa e stizzita, invece, con le opposizioni. Così la premier Giorgia Meloni si è presentata al Senato per il question time, molto atteso anche perché l’ultimo intervento in parlamento della premier risaliva a più di un mese fa.

Arrivata prima dell’orario d’aula, si è trattenuta con il presidente Ignazio La Russa e c’è chi assicura che l’argomento principale siano state le riforme costituzionali e il loro iter d’aula: spedito quello della giustizia, lento quello del premierato.

Quando poi ha preso la parola la premier si è molto impegnata rivendicare il già fatto, a scaricare sui precedenti governi la responsabilità del non fatto e sulle regioni il fallimento del decreto sulle liste d’attesa, ovvero l’unico tema a cui davvero i cittadini – anche in vista delle regionali dell’autunno – si sono dimostrati sensibili.

Una precisazione non letta dagli appunti, in cui Meloni ha detto che «devo fare un appello alle regioni, perché noi ogni anno stanziamo risorse che però vengono gestite dalle regioni per le liste d’attesa». Per questo motivo «abbiamo fatto un decreto» per «intervenire, eventualmente, con dei poteri sostitutivi quando non si riesce a governare le liste d’attesa. Le regioni su questo non sono d’accordo, ma gli italiani sappiano che abbiamo queste difficoltà». Con buona pace e soprattutto silenzio sul fatto che buona parte delle regioni – che evidentemente Meloni considera ribelli – sono governate dal centrodestra.

L’intento del governo, fatto trasparire sin dalla vigilia e complice la coincidenza storica, è stato quello di limitarsi a rivendicare gli obiettivi raggiunti, in una sorta di riproposizione in aula dell’intervista all’AdnKronos di qualche giorno fa. Ben sapeva da chi guardarsi: Matteo Renzi, l’unico che in effetti è stato capace di farla arrabbiare davvero incalzandola su privatizzazioni, riforme e legge elettorale. Con lui si è fatta scappare di volere «l’inserimento delle preferenze nella legge elettorale».

Ammissione che conferma anche come la maggioranza stia pensando a ridimensionare i propri obiettivi: lavorare su una nuova legge elettorale da approvare con legge ordinaria e mettere da parte quella costituzionale del premierato. Anche qui Meloni forse ha detto più di quanto avrebbe voluto, riferendosi alla presunta madre di tutte le riforme, che per Renzi è diventata «la suocera di cui nessuno parla». «Non dipende da me, ma dal parlamento», ha detto Meloni, quasi a volersene lavare le mani.

Niente di nuovo

Su tutto il resto, il format della risposta di pochi minuti ha facilitato la genericità nella risposta e la coincidenza con l’apertura del conclave ha contribuito a distrarre l’attenzione. Meloni ha ottenuto la non belligeranza degli alleati, con Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia, che ha magnificato i successi economici del governo e incassato un «continueremo in questa direzione» dalla premier. Per la Lega, per la quale non ha parlato il capogruppo Massimiliano Romeo, il focus è stato il lavoro: ricordando i dati positivi su occupazione e Pil ma anche i quelli pesanti delle morti sul lavoro, come unica frecciata. Anche su questo Meloni ha più annuito che chiarito, rinunciando anche a dare ulteriori notizie sul decreto da un miliardo approvato in Cdm ma i cui contorni sono ancora fumosi.

Poi è tornata sui temi sicuri e ben rodati di politica estera: ripetuto il mantra della sua volontà di essere «facilitatrice tra Usa e Ue», ha ricordato l’importanza del fronte sud del Mediterraneo e confermato che rispetterà i parametri di un aumento della spesa «raggiungendo il 2 per cento entro il 2025». Una affermazione che ormai non fa più notizia, anche perché l’assicurazione era già stata data a Donald Trump – con cui «siamo leali ma non subalterni», ha ripetuto – e ormai sembra una scelta assodata. Con poco entusiasmo dal lato di emiciclo della Lega, sempre critica sul punto.

Quanto al Medio Oriente, «i paesi arabi sono la chiave per la soluzione del conflitto, anche per tracciare un quadro regionale di pace e sicurezza, che deve comprendere la possibilità di due stati». Nulla più, nemmeno sulla strage di civili a Gaza e gli annunci di occupazione del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Ha infine anticipato di stare lavorando a una missione nell’Indo-Pacifico e in Cina e questa è forse l’unica vera novità di politica estera.

In realtà, nell’unico settore internazionale – almeno a livello di trattato come è quello tra Italia e Albania – in cui Meloni avrebbe voluto rivendicare un obiettivo raggiunto, l’escamotage è stato quello di usare la percentuale. Sollecitata dal suo capogruppo Lucio Malan, la premier ha parlato di «strategia a tutto campo» del governo e «alla fine di questa settimana oltre il 25 per cento» dei migranti trattenuti «sarà già rimpatriato».

Tradotto in numeri assoluti: una decina di persone, sulle 40 portate in nave, con ingenti costi, nei convertiti Cpr in Albania. Per fortuna, alle 16.30 è arrivato l’extra omnes e l’attenzione di tutti è tornata su San Pietro. Al prossimo premier time, già fissato alla Camera il 14 maggio.

© Riproduzione riservata