Giorgia Meloni ha scelto la provocazione: ha attaccato il centrosinistra che era in piazza per l’Europa il 15 marzo e dileggiato il manifesto di Ventotene scritto dagli antifascisti Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni dal confino, estrapolandone ad arte alcuni passaggi parziali sulla «rivoluzione europea socialista» e sul «partito rivoluzionario» per poi tuonare «questa non è la mia Europa». Una chiusura che ha scatenato le urla dell’opposizione e la sospensione della seduta.

La trovata pirotecnica studiata ad arte, ammiccante al mai sopito orgoglio missino, sarebbe stata ispirata dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari che, secondo fonti interne, ha preso ispirazione da un articolo sulla Verità del 16 marzo che citava gli stessi passaggi poi letti in aula dalla premier.

Un modo perfetto per nascondere la debolezza dimostrata in comunicazioni parlamentari che l’hanno vista scendere a compromessi nella sua maggioranza e smentire, di fatto, la sua posizione sul Libro bianco sulla difesa europea di Ursula von der Leyen.

La bagarre, infatti, ha distolto l’attenzione dal fatto che il governo abbia scelto la linea del prendere tempo sul riarmo europeo, minimizzandone la portata, e tenere ferma la volontà di non cambiare atteggiamento nei confronti degli Stati Uniti di Donald Trump, nonostante la minaccia dei dazi, l’apertura del dialogo con la Russia e l’umiliazione di Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca.

Sul ReArm Europe – che al parlamento europeo Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno votato, mentre la Lega no – ha parlato di «criticità», che chiederà «di chiarire cosa si intenda per spese di difesa» e ribadito che «il governo aveva chiesto lo scorporo delle spese difesa dal calcolo del Patto di stabilità», ponendo il problema che «l’intero Piano si basa quasi completamente sul debito nazionale». Per questo «con Giorgetti abbiamo elaborato una proposta che ricalca l’Invest Eu, con garanzie europee per investimenti privati».

Il risultato di fine giornata è stato quello di tenere compatta la maggioranza votando una mozione ritagliata in modo certosino sui punti all’ordine del giorno del vertice europeo, senza però toccare i nodi cruciali come la difesa comune e le contromisure ai dazi. Solo così, del resto, è stato possibile tenere insieme tre partiti con posizioni diverse sulle scelte di fondo e, in particolare, evitare lo strappo della Lega. Eppure il partito di Matteo Salvini – che non era a Montecitorio ma a Bruxelles dove ha incontrato i colleghi di estrema destra Viktor Orbán, Marine Le Pen e Jordan Bardella – ha comunque voluto esplicitare la sua sconfessione della linea meloniana.

La sconfessione

«L’Italia non approverà una risoluzione che dà a Meloni il mandato di approvare il ReArm Eu», ha scandito a 24 Mattino Riccardo Molinari, capogruppo alla Camera della Lega. «La risoluzione parlerà della proposta di Giorgetti all’Ecofin e della volontà dell’Italia con i propri tempi di aumentare la propria difesa in linea con gli impegni del paese con la Nato. Ci aspettiamo che Meloni porti avanti questa posizione al Consiglio europeo». Tradotto: la premier non si azzardi a fughe in avanti sul riarmo a Bruxelles che non siano state concordate a Roma. «Siamo sicuri che farà valere i nostri interessi nelle trattative», ha concluso Molinari nella sua dichiarazione di voto sulla risoluzione.

Quasi un commissariamento di palazzo Chigi, a voler dare credito ai toni utilizzati dai leghisti in aula che Meloni ha incassato senza batter ciglio. Una scelta in difesa, quella della premier, che va letta nell’ottica di prendere tempo. Il piano ReArm Eu – che pure ha votato – per Meloni è «fuorviante» perché la difesa non sono solo armi, ma è consapevole di quanto sia scivoloso rivendicarlo, soprattutto quando la Lega è pronta a usare l’argomento degli investimenti sottratti al welfare per comprare armi. Il progetto, poi, comunque avrà bisogno di ulteriori passaggi prima di venire messo a terra. Meglio allora non dare alibi a Salvini, compattare la maggioranza su una mozione unitaria ben ritagliata per non urtare nessuno per quanto poco significativa, e superare lo scoglio del Consiglio europeo, che formalmente avrà al centro il quadro economico dell’Ue, la questione migratoria e le crisi belliche internazionali.

Il Quirinale

Dopo la replica alla Camera, Meloni ha partecipato con otto dei suoi ministri al tradizionale pranzo al Quirinale in vista del Consiglio europeo. Tutto come da prassi, anche se è mancato un faccia a faccia individuale con il presidente Sergio Mattarella, che in alcune occasioni aveva preceduto la partenza. Secondo fonti interne, in questa sede non c’è stato alcun accenno alla polemica scatenata da Meloni strumentalizzando il Manifesto di Ventotene e alle approssimazioni cui la premier ha piegato il testo. Non sarebbe del resto stato il contesto adatto, vista la presenza di altri ministri. Tuttavia difficilmente il Colle può aver apprezzato le storture storiche pronunciate in aula da Meloni.

Così la premier arriva a Bruxelles forte di una polemica montata ad arte con le opposizioni e che ancora una volta mette in luce il suo rapporto irrisolto con l’antifascismo e con una risoluzione di maggioranza approvata con 188 sì che però è silente su tutti i temi chiave al centro del confronto politico e diplomatico europeo.

L’unica certezza in questo momento è che dalla Lega è arrivato un avvertimento forte e chiaro che frena la premier sulla questione primaria della difesa, su cui la maggioranza ha scelto di non spaccarsi in aula al prezzo di non prendere alcuna posizione chiara. Con il risultato di portare nel consesso europeo un’Italia orientata a prendere tempo in attesa di auspicati, per quanto non probabili, tempi migliori per le relazioni europee con Washington.

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