Se c’è un canale di comunicazione che mai si è interrotto in queste settimane di montagne russe con i dazi americani, è quello tra Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen. A maggior ragione ora che è imminente la partenza della premier alla volta della Casa Bianca. «La presidente è in contatto per la missione della premier negli Stati Uniti», ha confermato ieri la portavoce della Commissione europea, Arianna Podestà, durante il briefing quotidiano con la stampa.

Un contatto definito «costante», perché von der Leyen «accoglie con favore ogni azione da parte degli stati membri» ma le «coordina da vicino», visto che la competenza a negoziare un accordo sulle tariffe resta in capo alla Commissione, «come è sancito nei nostri Trattati». Le parole chiave, dunque, sono quelle che definiscono la missione di Meloni «molto gradita» ma anche «strettamente coordinata».

Del resto, proprio ieri, il commissario europeo per il Commercio, Maros Sefcovic, era a Washington per incontrare le controparti statunitensi, per «esplorare il terreno per una soluzione negoziata» sui dazi, ha fatto sapere la Commissione, che ha sospeso ufficialmente le contromisure europee che dovevano scattare oggi, dopo che Donald Trump ha sospeso per 90 giorni i dazi. Insomma, i negoziati sono in corso su più fronti e se Bruxelles si sta imponendo nel ruolo di coordinatore, l’Italia si è premurata di incassare il via libera per tentare di indurre il presidente americano a più miti consigli nei confronti dei mercati italiani ed europei.

Il viaggio di Meloni, dunque, comincia sotto l’ombrello europeo e palazzo Chigi è stato ben attento a non divulgare ulteriori informazioni su quale sarà la strategia d’attacco. Certamente la locuzione più ripetuta dalla premier – anche davanti alle categorie economiche incontrate la settimana scorsa – è stata «zero per zero», cioè l’azzeramento dei dazi sia europei sia americani.

Altro obiettivo intermedio, qualora non si arrivasse a ipotizzare tanto, sarebbe quello di espungere il settore agroalimentare europeo da quelli colpiti, sulla falsariga di come gli Usa hanno fatto con i prodotti high tech.

Se la sospensione temporanea dei dazi e il concomitante stop delle contromisure europee ha tolto pressione al viaggio di Meloni, rimane tuttavia un elemento da considerare: la premier ha insistito perché l’incontro con Trump avvenisse in tempi rapidi (anche se Antonio Tajani ha detto che sono stati gli Usa a invitarla) e mai si muove senza essere certa di poter ottenere un risultato utile, almeno sul piano mediatico.

Se l’incontro, poi risolutivo, per la liberazione della giornalista Cecilia Sala può essere considerato un precedente, significa allora che il governo italiano è convinto di avere qualche carta ancora coperta da giocarsi, per portare a casa un risultato che non sia il semplice attestato di amicizia dell’alleato americano.

L’idillio europeo

Per ora, tuttavia, la strategia più leggibile della premier è quella di non allontanarsi mai troppo da quella della Commissione europea. Non a caso, nel silenzio di Meloni di questi giorni, l’interprete autentico e più loquace del suo pensiero è stato il ministro degli Esteri Tajani, in viaggio tra India e Giappone.

Il leader di FI, che è anche garante dell’ancoraggio europeo attraverso il Ppe, ha detto che la missione in Usa «va a sostenere le posizioni europee», perché «siamo convinti che l'Europa debba presentarsi unita» e «l’Italia non si sostituisce all’Europa, ma può dare un contributo». Poi ha anticipato che sul tavolo dei colloqui con Trump ci sarà «anche il dossier commerciale, oltre quello di politica estera», precisando anche che l’Italia è pronta ad «aumentare la spesa per la difesa al due per cento del Pil» perché «significa rispettare un impegno assunto con la Nato».

Una posizione, questa, che va certamente nella direzione gradita all’Unione europea e al piano di riarmo von der Leyen, ma nello stesso tempo richiederà un ulteriore passaggio con l’altro azionista del governo.

Il leghista Matteo Salvini, infatti, si è detto «assolutamente d’accordo ad aumentare gli investimenti per difendere l’Italia anche a più del 2 per cento», ma è contrario a «fare debito per improbabili eserciti europei che porterebbe a comprare armi in Germania e Francia». Non a caso, la parola riarmo non è ancora mai stata dibattuta in maggioranza e prudentemente ogni mozione in parlamento ha evitato di entrare nel merito della questione.

La sinergia europeista di Meloni, tuttavia, non guarda solo ai dazi e al riarmo. A palazzo Chigi si attende con ansia la sentenza della Corte di giustizia europea sui cosiddetti “paese sicuri”, che potrebbe sbloccare il futuro utilizzo dei centri in Albania, ora trasformati in Cpr.

Parallelamente, però, la Commissione europea sta lavorando alle nuove regole per i rimpatri e un documento visionato in anteprima da Euractiv propone l’elenco di «sette paesi d’origine da considerare sicuri», verso cui ogni paese europeo potrà procedere al rimpatrio dei migranti. «La lista include Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia».

Se così fosse il governo italiano potrebbe tirare un grande sospiro di sollievo per il futuro e addirittura rivendicare la correttezza del proprio operato prima che i giudici italiani bloccassero l’utilizzo dei centri albanesi. I migranti che per primi erano stati portati in Albania per l’immediato rimpatrio, infatti, provenivano da Bangladesh ed Egitto.

Se le anticipazioni verranno confermate, dunque, l’idillio Meloni-von der Leyen avrebbe una ragion d’essere in più.

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