«Siamo pronti a discutere di tutto in un dibattito parlamentare aperto e franco. Ma se nella legge di Bilancio c’è un provvedimento con la governance del Next generation Ue e la norma sui servizi segreti, noi votiamo contro. I nostri ministri sono a disposizione». Quando a sera Matteo Renzi scocca un presunto “ultimatum” al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, tra gli applausi del Pd, sa bene che ormai l’ipotesi di una task force per i fondi europei decisa attraverso un emendamento della finanziaria, e organizzata come una piramide al cui vertice c’è il premier, è ormai stata ritirata da palazzo Chigi. Semmai non è chiaro come il premier abbia solo potuto pensare che il suo blitz sarebbe potuto andare a segno.

Il dissenso c’è e si vede

La battaglia sulla riforma del Fondo salva stati, oggetto concreto ma ormai solo apparente del dibattito di Camera e Senato, quella che oggi Conte sosterrà al Consiglio europeo, è ormai alle spalle. La mattina a Montecitorio la maggioranza ha tenuto, anche se il dissenso grillino è stato rumoroso. A palazzo Madama il voto arriva molto più tardi, e con un largo margine. In entrambe le camere lo scontro con l’opposizione è ruvido. A Montecitorio la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni sfida i Cinque stelle alla coerenza con l’originario euroscetticismo. Poi, a voto espresso, fa indossare ai suoi deputati magliette con la scritta «M5s=Mes».

Ma il dissenso vero, quello pericoloso per il governo, non è quello che viene dalla piccola frangia grillina che vota no. Alla Camera il renziano Ettore Rosato spiega al premier che «non ci si può chiudere in uno stanzino e decidere in tre o quattro, come non esiste che si commissarino ministri e Pubblica amministrazione. È la fatica della democrazia». Il capogruppo dem Graziano Delrio affonda anche di più. Perché da cattolico a cattolico esprime un molto pio consiglio: «Lei presidente deve avere un’immagine a ispirarla, quella di papa Francesco che ieri ha pregato da solo. Deve avere umiltà, ascolto, orecchio attento al paese che sta soffrendo». E quanto alla gestione dei progetti del Recovery, «le modalità e la struttura tecnica si vedranno, ma l’importante è non esautorare i poteri che già ci sono».

Se il premier avrà orecchie per ascoltare, il Pd offre dunque una mediazione: innanzitutto andranno cancellati i «poteri sostitutivi» dei manager capi-missione della task force rispetto ai ministeri. Ai dem basterebbe almeno che al processo di stesura del piano e alla sua realizzazione siano garantite «velocità e semplificazione». Considerano l’attacco di Renzi «strumentale» perché «fino a pochi mesi fa chiedeva di applicare il modello Expo e quello Genova un po’ a tutto». I renziani fanno sapere che non basterà.

Il partito che (ancora) non c’è

Nessuno crede che il leader di Italia viva davvero abbia in mente di far saltare il governo, neanche dopo la finanziaria. Ma stavolta si deve a lui se palazzo Chigi è costretto a dare un colpo di freno al suo incredibile proposito di procedere di gran fretta alla costituzione a un sostanziale mini-governo parallelo, e alle sue pressoché esclusive dipendenze. Da Italia viva filtra anche il sospetto che il tentativo abbia qualcosa anche a che vedere con la costituzione di una forza politica tutta sua, in prospettiva. Il premier, è il ragionamento, manterrà un profilo super partes fino al voto sul nuovo capo dello stato. Poi «la tecnostruttura che ha immaginato si trasformerà nella sua squadra» perché «chi sarà più popolare di quei manager, che saranno molto esposti nel piano di rilancio del paese, un po’ come lo è Arcuri ora per l’emergenza e i vaccini?».

Fantapolitica, forse. Intanto però Conte deve «ascoltare», come gli consiglia Delrio. Perché una parte della sua maggioranza è irritata, l’altra è sbandata. Oggi può andare al Consiglio europeo a sostenere la modifica del Patto di stabilità. Ma ha ricevuto un mandato a trattare più che un mandato pieno. «Lo stato di avanzamento dei lavori su questi temi in agenda sarà verificato in vista della ratifica parlamentare della riforma del trattato del Mes», dice il testo della risoluzione faticosamente concordato. I grillini esultano per aver ottenuto una «ratifica parlamentare» che però era già prevista per tutti i parlamenti europei; e sul Mes sanitario deciderà il parlamento. Concetti diluiti in 14 pagine, «una verbosità in cui ognuno leggerà qualsiasi cosa», ironizza la senatrice Emma Bonino.

Lo stato confusionale della maggioranza in certi momenti sfiora il folclore. A Montecitorio si ascolta di tutto. Il primo dei Cinque stelle che deve pronunciare il sì alla riforma è Davide Crippa. Deve arrampicarsi sugli specchi: «Questo non è un voto per attivare il Mes e non è neanche un voto per la sua riforma, come falsamente dice qualcuno per confondere le idee ai cittadini. Noi siamo contro il Mes e non lo attiveremo finché saremo al governo». Ma il meglio arriva con la sequenza delle argomentazioni dei sei dissidenti grillini, pronunciate fra gli applausi scroscianti delle destre: «Siamo d’accordo quasi su tutto, ma quel quasi è un macigno»; «con la sua firma alla riforma presidente Conte rischierà di non essere più presidente del Consiglio, i congiurati sono quelli che siedono al tavolo, non chi parla apertamente»; «è totalmente falso che chi vota contro la riforma vota contro il governo Conte»; «non dovete darci questo peso e questa responsabilità»; «questo è un no tecnico, non politico»; «non si può votare sì e poi votare no»; «contro il Mes abbiamo fatto i gazebo informativi, noi stiamo portando avanti il vero programma del Movimento».

Alla Camera la risoluzione viene espresso per parti separate (quattro), la risoluzione radicalmente elogiativa del Mes, presentata da +Europa e Azione, riceve il parere favorevole del governo e finisce per prendere 302 voti, più di quella di maggioranza “depurata” dal sì finale alla riforma, che ne prende 297, contro le 314 sulle altre parti: i grillini votano un testo per loro assai più spericolato, ma non se ne accorgono.

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