«Rivolgersi a Conte. Noi siamo il Pd. Noi una risoluzione con dentro il no all’utilizzo del Mes non possiamo votarla». È la risposta secca che un alto dirigente del Pd oppone a chi gli elenca la lunga serie dei nodi della maggioranza che stanno venendo al pettine in vista delle risoluzioni sulla revisione del trattato Mes al voto il 9 dicembre alle camere. Ieri cinquanta deputati del M5s e diciassette senatori hanno firmato un documento contro la riforma.

I termini non sono ultimativi, ma mai fra i grillini in eterna e interna guerriglia si era coagulata un’area così vasta. Il Pd assicura che anche questa volta alla fine Conte porterà a casa la sua maggioranza. E potrà andare il giorno dopo all’Ecofin, il Consiglio dei ministri dell’economia di tutti gli stati membri, con un «mandato pieno». Ma stavolta la congiunzione astrale è avversa. Oltre al caso esploso nei Cinque stelle c’è il caos in Forza Italia. Il dietrofront improvviso di Berlusconi sul Mes, e l’annuncio di un voto negativo sotto il ricatto plateale di Matteo Salvini (chi vota sì «finisce di essere compagno di strada della Lega»), priva la maggioranza dell’ipotesi di un soccorso azzurro, che in questi mesi non è mai davvero servito ma che ha sempre costituito una riserva psicologica, l’airbag nell’eventualità dell’impatto. E se i grillini che si autoaffondano sono un’ipotesi dell’irrealtà, la loro giostra è ogni volta più inafferrabile. E stavolta tutto dipende da come Conte saprà governare la sua maggioranza.

L’accrocchio sul Mes

Sulla riforma del Mes alla fine una soluzione si troverà. Il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola, lavora a tranquillizzare il M5s e dalla sua c’è il reggente Vito Crimi, forte anche del fatto che la maggioranza del gruppo di Bruxelles è contro il veto alla riforma. È ottimista Piero De Luca, il deputato figlio d’arte che siede al tavolo per la stesura della risoluzione parlamentare. «Con il rispetto che si deve al dibattito interno di una forza politica alleata, sono certo che molti dissensi rientreranno. E che arriveremo a un testo condiviso, che sia chiaro e che dia pieno mandato al governo in vista del voto della riforma». Altrettanto chiaro è però che il Pd non accetta un testo che metta nero su bianco una delle condizioni grilline: la rinuncia al Mes sanitario. La linea del Piave dem è quella votata in altre occasioni, un esorcismo lessicale: «La maggioranza impegna il governo ad assumere ogni decisione sul ricorso alla linea di credito sanitaria del Mes solo a seguito di un preventivo e apposito dibattito parlamentare e previa presentazione da parte del governo di un’analisi dei fabbisogni e di un piano dettagliato dell’utilizzo degli eventuali finanziamenti». Al di là del fatto che ormai è senso comune che il Mes sanitario non verrà mai chiesto, su questo punto il Pd non può perdere la faccia: «Il Pd non fa passi avanti, ma neanche indietro», avverte De Luca. Quanto alla richiesta di un nuovo rinvio della riforma, per il Pd (e per l’Europa) la questione diventa spinosa. Il sì finale al nuovo Trattato arriverà dai parlamenti nazionali. «Occorre proseguire nella road map già tracciata», spiega Dario Stefano, altro ambasciatore al tavolo, «sono persuaso che la lettura degli atti scioglierà ogni perplessità».

Accentra ma non governa

Dunque si torna all’inizio, cioè a palazzo Chigi. È lì che si deve «sciogliere ogni perplessità». Probabilmente Conte ce la farà a racimolare i voti che gli servono per scampare il voto del Senato. Anche se nel gruppo misto, che ormai si è inzeppato di ex Cinque stelle dalle più disparate tendenze, c’è chi racconta che non si riesce più a fare un calcolo realistico dei voti favorevoli al governo giallorosso. Aleggia l’ipotesi «Tav», la mozione autonoma su cui i Cinque stelle nell’agosto del 2019 si contarono per non votare sì. Di lì a una settimana il governo gialloverde cadde. Se per passare la nottata il premier stavolta dovrà contare su qualche assenza dai banchi dell’opposizione, non sarà formalmente abbastanza per obbligarlo a percorrere la strada del Quirinale, ma di fatto la maggioranza non sarà politicamente più autonoma.

Non solo Fondo Salva Stati

E anche volendo dare per scavallata la cima tempestosa del Mes, resta il fatto che i segnali di un presidente che accentra le decisioni, ma non le governa, ormai ci sono tutti. Ieri il ministro della Salute, Roberto Speranza, è stato costretto a presentarsi alle camere per riferire fumosamente i contenuti di un Dpcm che ancora non c’era, con tanti saluti ai buoni propositi di «parlamentarizzazione» dei contestati atti del presidente del Consiglio. E non c’era perché nella maggioranza non c’era accordo. Anche il Pd è diviso fra la linea del rigore di Speranza (e Dario Franceschini, e Nicola Zingaretti) e i favorevoli a più estesi ricongiungimenti familiari, come il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, come sempre in sintonia con Italia viva. Arrivare in queste condizioni di «sfilacciamento», la definizione è del dem Matteo Orfini, alla vigilia della scadenza del vecchio Dpcm parla di un premier che non riesce a comporre i conflitti. Anche fuori dalla maggioranza, e cioè nel paese reale.

Per lo stesso 9 dicembre è convocato lo sciopero dei lavoratori della pubblica amministrazione. I sindacati – preoccupati dallo sciopero quanto e più del governo – hanno espresso volontà di dialogo. Ieri il Pd ha scongiurato palazzo Chigi di occuparsene, per congelare la protesta e trovare un accordo. Per non parlare del Recovery fund. Il premier ha già dovuto ridimensionare la sterminata task force che aveva fantasticato di mettere in piedi per la scrematura dei progetti e che ha fatto saltare i nervi al Pd e a Italia viva. Sono troppi fronti di fuoco, aperti tutti insieme, per un premier che consuma il suo tempo a risolvere i guai che lui stesso si procura.

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