Il rimpallo di responsabilità tra Italia e Francia avvenuto in materia di immigrazione solleva domande e quesiti che vanno ben oltre il gioco delle parti tra i due paesi. Per quale ragione negli ultimi anni si sono moltiplicati gli sbarchi di cittadini stranieri sulle coste italiane e
nell’Europa meridionale? Perché le risposte politiche a questa moltiplicazione, a livello nazionale e comunitario, appaiono fragili e inconsistenti? Quali potrebbero essere le strade da percorrere per superare una situazione così drammatica?

Per iniziare a rispondere a queste domande può essere utile prendere in considerazione la storia, quella più recente. L’evoluzione negli ultimi vent’anni delle migrazioni e delle politiche migratorie rappresenta infatti una prospettiva particolarmente utile per liberare una volta per tutte il tema degli arrivi di immigrati sulle coste italiane dall’orizzonte dell’emergenza e dell’eccezione.

Non c’è infatti nulla di eccezionale nella sequenza degli eventi recenti che hanno caratterizzato lo scenario migratorio
del Mediterraneo, al contrario si tratta del frutto maturo di una serie di scelte consapevoli effettuate dalle classi dirigenti italiane ed europee.

Contenimento italiano

© Roberto Monaldo / LaPresse

Il primo tassello di storia da prendere in esame è relativo al progressivo slittamento delle politiche migratorie comunitarie, che da strumento per coordinare e governare la mobilità internazionale si sono trasformate in dispositivo finalizzato essenzialmente a impedire o contenere al massimo i flussi.

Nel caso italiano, questa torsione è particolarmente evidente. L’ultima legge sull’immigrazione è la n. 189 del 2002, la cosiddetta legge Bossi Fini, che a sua volta modificava il testo unico del 1998. La legge del 2002 venne accompagnata da uno strumento “classico” della politica migratoria italiana, la sanatoria, che riguardò la cifra record di 634mila persone.

In assenza di politiche attive di pianificazione dei flussi, le sanatorie fin dagli anni Ottanta del Novecento hanno avuto in Italia lo scopo di garantire la regolarizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici presenti, confermando allo stesso tempo la tendenza a ricorrere continuamente a strumenti emergenziali e non ordinari. Dopo il 2002, la situazione è peggiorata a vista d’occhio.

Il tema dell’immigrazione è stato governato a furia di decreti di urgenza, aventi come obiettivo politico e mediatico la “sicurezza”: il pacchetto voluto da Maroni nel 2009, i provvedimenti di Minniti del 2017, quelli di Salvini nel 2018-19 a cui hanno fatto seguito le parziali modifiche di Lamorgese.

Parallelamente anche lo strumento – parziale e incompleto – della sanatoria è stato bloccato o utilizzato in maniera limitata, fino ad arrivare alla regolarizzazione del 2020, prevista solo per i settori del lavoro domestico e dell’agricoltura, per la quale ad oggi sono state incredibilmente esaminate solo una parte delle domande presentate.

Imbuto impenetrabile

Un campo profughi a Calais (AP Photo/Rafael Yaghobzadeh)

Tornando allo scenario internazionale, la svolta più rilevante nel corso dell’ultimo ventennio è quella successiva alle primavere arabe. La catena di rivolgimenti e conflitti apertasi con il ciclo del 2010 ha dato vita a un movimento diffuso di profughe e profughi, tra i quali solo una piccola parte si è messa in cammino verso l’Europa. Il livello comunitario di coordinamento per i richiedenti asilo si è rivelato inefficiente e impreparato, incentrato su accordi datati come la Convenzione di Dublino (sottoscritta nel 1990 e diventata operativa nel 1997) e concepito su una concezione individuale del richiedente asilo, incapace di affrontare flussi di massa
e collettivi.

Nel frattempo, a seguito degli sviluppi anche in Europa della crisi economica mondiale del 2008, le politiche comunitarie avevano portato a un generale irrigidimento della concessione di permessi di soggiorno per lavoro. Ecco quindi che la già evidente strettoia per entrare in Europa si è trasformata in una sorta di imbuto,
sempre più stretto e sempre più impenetrabile.

Permessi per lavoro rilasciati col contagocce, diritto di asilo sempre più limitato, altre tipologie di ingresso legale ormai residuali: tutto ciò non ha fatto altro che aumentare a dismisura la potenza e il ruolo degli attori extralegali, che hanno acquisito anche al di fuori del
Mediterraneo un potere e margini di manovra mai registrati in passato.

Le imbarcazioni precarie e affollatissime in viaggio verso le coste europee hanno sostituito i vettori di linea. I mediatori, gli sfruttatori, i reclutatori illegali hanno soppiantato gli agenti istituzionali. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: decine di migliaia di morti tra coloro che riescono a partire per l’ultimo tratto di viaggio verso l’Europa, un numero probabilmente maggiore tra coloro che si fermano prima, una quantità spaventosa di umiliazioni e di vessazioni per tutti, anche per coloro che riescono miracolosamente ad arrivare in Europa, stretti in un sistema di accoglienza inefficace e carente sul piano dei diritti.

Modelli possibili

Le alternative a questa gestione dei flussi migratori esistono e sono percorribili. Innanzitutto, è indispensabile ripristinare canali legali capaci di governare i flussi migratori tra l’Europa e il sud globale assicurando un sistema razionale e stabile di permessi per lavoro, superando l’ipocrisia di un sistema legislativo che rende difficilissimo entrare in Europa per ragioni lavorative ma che convive con un mercato del lavoro in cui persiste una componente importante di immigrati inseriti in modo non regolare.

Il tema del diritto di asilo, diventato recentemente una delle poche porte legali di accesso all’Europa, verrebbe in questo modo ridimensionato a fronte dell’estrema polarizzazione cui è stato sottoposto. Per far fronte a questa esigenza sia a livello comunitario sia a livello nazionale esistono strumenti e opzioni percorribili e già seguiti in passato quali i decreti governativi annuali di programmazione dei flussi di immigrazione (ora ridotti al lumicino e con numeri bassissimi) e gli accordi bilaterali per scambi di lavoro e formazione attivi soprattutto con paesi mediterranei che ad oggi sono sottoutilizzati.

Il caso albanese

Anche in questo caso, la storia ci viene in soccorso, e riguarda proprio l’Italia. Nel corso degli anni Novanta l’Italia si trovò investita di un aumento di immigrati provenienti dall’Albania, che in seguito alle restrizioni legislative italiane e in fuga da una situazione allarmante sul piano socio-economico si mettevano in viaggio
su imbarcazioni di fortuna, pericolose e causa di numerosi naufragi.

L’allarme per l’immigrazione albanese intanto aveva generato un processo di criminalizzazione a livello mediatico. Sul finire del decennio, la progressiva legalizzazione dei flussi migratori e il ripristino di collegamenti ufficiali, insieme a interventi di politica estera, avviarono un processo di normalizzazione delle migrazioni tra i due paesi, che hanno portato a un profondo radicamento delle comunità albanesi in Italia oggi molto evidente e a un generale
miglioramento delle condizioni economiche dell’Albania.

È del tutto evidente che il rapporto tra Italia e Albania rappresenta qualcosa di molto più contenuto rispetto al sistema di relazioni tra Europa e Mediterraneo, come pure la congiuntura degli anni a cavallo tra i Novanta e i Duemila è riversa rispetto allo scenario attuale. Tuttavia, la storia contemporanea pullula di esempi che
rivelano come le politiche repressive e restrizioniste in tema di immigrazioni oltre a produrre disuguaglianze non sortiscono neanche gli effetti sperati di chiusura dei flussi ma alimentano irregolarità e sfruttamento.

La guerra alle migrazioni legali è alla base delle tragedie che ogni giorno avvengono per mare e sulle frontiere terrestri. La coscienza europea prova di fronte a tutto ciò un sentimento di impotenza e di inibizione alla prassi. Si tratta di una paralisi che è possibile e doveroso superare, attraverso una cultura della politica migratoria che è opportuno conoscere e diffondere, non solo tra le classi dirigenti.

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