Non bastano i diktat di Orbán. Anche in Ungheria, nonostante tutto, la marcia per i diritti lgbt invade le strade. «Una marea umana coloratissima», riporta Yuri Guiana, attivista di All Out. Duecentomila nella città ungherese, in contemporanea con la manifestazione gemellata nel capoluogo lombardo
Camminano piano, ma non hanno fretta. Il sole batte sul cemento milanese, ma loro, trecentocinquanta mila, sfidano il caldo torrido nel segno della “Resistenza arcobaleno”. Colori accesi, bandiere rainbow che si incrociano, sorrisi e mani che si stringono. «Chi odia la libertà odia anche l’amore, Come Orbán» dice un cartello.
Perché quest’anno il Pride di Milano non è solo celebrazione. È anche un presidio politico, un atto di resistenza arrabbiata e lucida. Succede tutto insieme, nello stesso giorno. A Milano si sfila, a Budapest si tenta di vietare. E invece no: anche lì, nonostante tutto, si sfila. «Una marea umana coloratissima», riporta da Budapest Yuri Guiana, attivista di All Out. Duecentomila nella città ungherese. Per la presidente del Pride, Viktoria Radvanyi. «È difficile fare una stima perché non c’è mai stata così tanta gente al Pride».
La repressione orbaniana
Il governo di Viktor Orbán ha provato a fermare il Pride con un divieto mascherato da norma: tutela dei minori, hanno detto. Come se l’amore, la visibilità, la libertà fossero un pericolo. La polizia non ha autorizzato la parata. Ma la città, il sindaco Karácsony, la società civile, le ambasciate europee, gli attivisti, non si sono arresi. Hanno detto: la manifestazione è nostra, è comunale, e si fa.
«Grazie, Viktor Orbán, di aver fatto pubblicità ad una società più tollerante», ha commentato ironico Gergely Karacsony, il sindaco di Budapest.
Nonostante ostacoli e provocazioni, come racconta, collegato con la piazza milanese, Gabriele Piazzoni, Segretario nazionale di Arcigay intervistato da Domani: «La polizia ha permesso a quattro fascisti di deviare un corteo con decine di migliaia di persone, subito dopo il ponte. Loro avevano l’autorizzazione, noi invece siamo considerati “abusivi”.
Quindi hanno deviato noi, non loro. La polizia ungherese è di un’ottusità incredibile: la città è completamente paralizzata, perché il corteo, costretto a muoversi in modo irregolare, sta bloccando trasporti pubblici e privati. È un disastro».
La paura italiana
Presente anche una delegazione del parlamento europeo e italiana, tra questi Elly Schlein: «Vietare il Pride vuol dire censura, vuol dire discriminazione istituzionale ed è per questo che è così importante essere qui a dire che l'amore non si vieta per legge e che nell'Unione europea, quando attacchi i diritti di uno stai attaccando i diritti di tutte e di tutti, e noi non lo accettiamo», afferma la leader dal corteo ungherese. Mentre il deputato Pd Alessandro Zan dice: «Giorgia Meloni, ancora una volta, è rimasta in silenzio. Dalla parte sbagliata della storia». Parole che risuonano forti anche a Milano.
Perché c’è un timore che aleggia. Non è solo solidarietà: è anche la consapevolezza che quel che succede a Budapest può accadere anche qui. «Oggi abbiamo marciato anche per i diritti della comunità ungherese e per la libertà di manifestare di chiunque», dice Natascia Maesi presidente di Arcigay nazionale «temiamo che il governo ungherese possa essere d’ispirazione per il governo Meloni.
Ci sono tutti o segnali che possa avvenire: la riduzione degli spazi del dissenso con il ddl sicurezza, il tentativo di controllare informazione pubblica e l’erosione dei diritti delle donne e delle persone Lgbt».
L’Italia guarda l’Ungheria non più con distacco. Lo dice una madre che ha portato la figlia quattordicenne: «Mi sento di doverle spiegare perché sfilare oggi è importante. Perché c’è chi vuole decidere per lei, per chi può amare, cosa può leggere, cosa è giusto o sbagliato».
Città in marcia
Intanto da Budapest arrivano le prime foto: polizia, transenne, le telecamere con riconoscimento facciale lungo il percorso del per identificare e multare i partecipanti. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ricorda la delegazione milanese a Budapest: «Nulla è acquisito e bisogna continuare, pacificamente ma intensamente, a battersi perché le conquiste ottenute non si perdano. Viviamo in un periodo in cui si vuole negare la libertà a tanti: per questo siamo anche a Budapest»
«Quello che succede a loro, succede a noi», dice Marco, 33 anni, infermiere. Il rischio è che Budapest non sia un’eccezione, ma un modello. In Ungheria è iniziato tutto con piccole limitazioni: ridurre gli spazi, parlare di tutela dell’infanzia come pretesto.
A Budapest come a Milano, sono i sindaci, i municipi, le associazioni, i cittadini a tenere il filo teso dei diritti. Il governo ungherese ha parlato di imposizione esterna, di “Bruxelles che comanda”. Orbán ha detto che l’Europa vuole dire agli ungheresi chi possono amare. Ma a Budapest non era Bruxelles. Era la città.
Anche a Milano, non c’erano esponenti di governo. Il deputato di FdI Riccardo De Corato punta il dito sulle bandiere: «Altro che corteo Lgbt: oggi a Milano si è sfilato con bandiere palestinesi e colori pro-Hamas». Ma a Milano la città è una marea arcobaleno.
L’aria che tira
I Pride oggi sono più che marce: sono barometri. Ci dicono che aria tira. In Ungheria, l’aria è pesante. In Italia, ancora respirabile, ma satura di un silenzio inquieto.
La comunità balla fino a tardi, sotto le luci calde del palco: tra questi Paola Iezzi, Francesca Michielin, Ambra Angiolini, Levante, Orietta Berti. È una festa, sì, ma anche una promessa. La città si abbraccia, si tiene per mano. Una coppia si bacia piano, in mezzo alla folla.
«Hai visto cos’è successo a Budapest?», dice un ragazzo a fine serata. «Sì», risponde una voce stanca ma felice. «Hanno sfilato anche loro. Contro tutto». E allora sì, per oggi — anche solo per oggi — hanno vinto.
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