Lo scontro sulla riforma della giustizia penale, che si è chiuso giovedì con un accordo tra i partiti della maggioranza, si è giocato quasi per intero sulla prescrizione e, come si legge nel nuovo testo voluto dal guardasigilli Marta Cartabia, su quello dell’improcedibilità. Istituti che prevedono l’estinzione del reato a fronte del passaggio del tempo che esaurisce la pretesa punitiva dello stato. La prescrizione è attualmente prevista solo per il processo di primo grado. La riforma Bonafede del 2019, infatti, prevede che il decorso della prescrizione sostanziale si interrompa quando il tribunale emette la sentenza. Dopo questo momento, si presume che la volontà dello stato di procedere per il reato sia chiara e dunque il processo debba arrivare a sentenza definitiva, senza alcun limite di tempo per farlo.

La riforma Cartabia inserisce un nuovo meccanismo: in primo grado rimane la prescrizione sostanziale prevista da Bonafede e calcolata sulla base della pena, e che dunque ha durata diversa a seconda della tipologia di reato. In appello e in Cassazione, invece, viene introdotta la prescrizione cosiddetta processuale: in questo caso a estinguersi non è il reato ma il processo.

La prescrizione processuale, infatti, prevede una durata fissa per ogni fase: due anni in appello e uno in cassazione. Questa durata secondo i tecnici di Via Arenula non è stata individuata in modo arbitrario, ma risponde ai tempi stabiliti come “non irragionevoli” per i giudizi di impugnazione dalla legge Pinto del 2001, che ha recepito le previsioni della Convenzione europea sulla giusta durata dei processi e sancisce il diritto all’equa riparazione nel caso di danno da irragionevole durata.

Questa formula ibrida, che somma due diversi tipi di prescrizione – una che ha effetti sul reato e una sul processo – è stata fortemente criticata dai magistrati, che hanno lanciato due specifici allarmi. Il primo, che la prescrizione processuale faccia “morire” moltissimi processi in appello: addirittura il 50 per cento, secondo il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Il secondo, che così si indebolisca il contrasto a fenomeni mafiosi: «La improcedibilità non corrisponde alle esigenze di giustizia anche perché riguarda tutti i processi compresi quelli per reati gravissimi, come mafia, terrorismo e corruzione, con conseguenze molto gravi nel contrasto alle mafie, al terrorismo e alle altre illegalità», ha detto il procuratore antimafia, Federico Cafiero de Raho.

Il fuoco di fila dei pm antimafia è stato unanime, e Cartabia – anche per l’imposizione del M5s – ha deciso nell’ultima bozza della riforma di modificare il testo. Che ora è stato accettato da tutti i partiti della maggioranza. La rivoluzione scatterà dal primo gennaio 2015, quando per tutti i reati ordinari sarà previsto il termine dei due anni in appello e uno in cassazione, prorogabili su decisione motivata del giudice di un anno in appello e sei mesi in cassazione. Prima della fatidica ora X, è stata prevista una norma transitoria che vale fino a fine 2024, e che riguarda i termini di tutti i processi: tre anni in appello e 18 mesi in Cassazione.

Per quanto riguarda i reati più gravi, nulla cambia per quelli puniti con l’ergastolo: non ci sono termini di durata previsti. Per mafia, terrorismo, violenza sessuale e associazione finalizzata al traffico di droga saranno possibili proroghe (sempre motivate) senza limiti di tempo. Infine sul tema dei reati “aggravati dal metodo mafioso” la mediazione tra partiti ha prodotto un allungamento rispetto a quelli senza aggravante: dal 2025 si prescriveranno in 5 anni durante l’appello e 2 e mezzo in Cassazione.

Dati a sorpresa

Ancora ieri molti magistrati si dicevano preoccupati dall’effetto della riforma sulla cancellazione di decine di migliaia di processi. Per valutare la fondatezza degli allarmi lanciati, è necessario partire dai dati a disposizione. Numeri che in parte smentiscono alcuni luoghi comuni sulle patologie del processo in Italia. Secondo i dati ministeriali del 2019 – ultimo anno non influenzato dalla pandemia e quindi verosimile in una proiezione futura – i procedimenti che si sono conclusi con la prescrizione del reato rappresentano il 9 per cento di quelli avviati a livello nazionale.

Interessante però è constatare in quale fase i procedimenti si prescrivono: circa il 38 per cento durante le indagini e dunque prima ancora che il processo sia cominciato; il 32 per cento nel giudizio di primo grado e il 26 per cento nel giudizio d’appello, mentre è insignificante nel giudizio cassazione, con meno dell’1 per cento. La maggior parte dei reati, quindi, non si prescrive per cause legate al processo e dunque a eventuali lungaggini procedurali, ma nella fase ancora precedente in cui gli inquirenti indagano. Tuttavia, le critiche della magistratura alla nuova prescrizione processuale si concentrano sul fatto che due anni siano troppo pochi per concludere il giudizio di appello.

Analizzando la durata di questa fase processuale, emerge che la durata media dei processi in appello in Italia è di 835 giorni, dunque più alta dei 730 previsti dalla nuova riforma, qualora rimanesse la previsione più restrittiva. Approfondendo il dato, tuttavia, risulta che le corti d’appello a superare il limite dei due anni sono otto: Firenze con 745 giorni, Bari con 813, Bologna con 823; Venezia con 996; Roma con 1142; Catania con 1247; Reggio Calabria con 1645 e Napoli con 2031.

Tutte le altre corti d’appello, invece, sono già al di sotto dei due anni per durata media dei procedimenti: compresa quella di Catanzaro oggi guidata da Gratteri, dove un processo d’appello dura in media 567 giorni.

Ovviamente, nelle corti con un processo più breve in appello, l’incidenza della prescrizione è molto inferiore. Un esempio su tutti fatto con due corti comparabili a livello di volume di contenzioso: nel 2019 il distretto di Napoli ha avuto una percentuale di prescrizioni del 32,8 per cento; in quello di Milano, dove il tempo di conclusione dell’appello è sei volte inferiore a quello di Napoli (2031 giorni contro 335) la prescrizione del reato in appello è avvenuta solo nel 4,5 per cento dei procedimenti.

Tradotto: nel caso in cui la riforma entrasse in vigore così com’è, gli interventi più drastici di rafforzamento delle corti d’appello per ridurre la durata dei processi dovrebbero essere localizzati ai soli distretti che già non rimangono sotto il limite del 730 giorni.

I dati mostrano anche un altro elemento: la durata dei processi è totalmente indipendente dall’elemento geografico, smentendo la facile equazione che i distretti del meridione, quelli anche più interessati alla lotta a fenomeni mafiosi, siano quelli più lenti dove i processi si prescrivono con maggiore frequenza.

A dimostrarlo è il dato sulla prescrizione pre-riforma Bonafede: nel 2020, la media nazionale di incidenza delle prescrizioni in grado d’appello sul totale dei procedimenti definitivi è stata del 26 per cento. I distretti con le maggiori difficoltà sono Roma (49 per cento), Reggio Calabria (48) e Venezia (45). Proprio questo dato è significativo perché si tratta di tre corti diversissime: Roma è la più grande d’Italia con oltre 10 mila procedimenti definiti l’anno; Reggio Calabria invece, con poco più di 1100 procedimenti, è omologabile a Caltanissetta che ha invece solo il 3 per cento di prescrizioni; infine Venezia, che conta circa 4000 procedimenti. Sopra la media nazionale ci sono poi Napoli (39 per cento, su 9 mila procedimenti), Catania e Bologna (33, rispettivamente su 3 mila e 6500) e Catanzaro (29 per cento su 2900).

Efficienti, invece, sono le corti d’appello medio-grandi come Milano e Palermo (6 per cento di prescrizioni su, rispettivamente, 5700 e 5000 procedimenti) e buoni risultati si hanno in tutte le procure siciliane, dove spicca il dato negativo di Catania, mentre le altre tre oscillano tra il 3 e il 6 per cento di prescrizione.

Il contrasto alle mafie

Proprio il fatto che la durata dei processi e la prescrizione dei reati non sia legata a un fatto territoriale permette di trarre altre conclusioni sul tema del contrasto alle mafie. Le corti siciliane sono decisamente rapide in grado d’appello: Messina è la più veloce d’Italia, con appena 228 giorni per concluderlo; Caltanissetta la segue con 293 giorni, Palermo con 445. In Campania, la maglia nera è quella di Napoli, mentre Salerno è tra le corti più rapide, con appena 340 giorni. Identica la situazione in Calabria, dove Reggio Calabria fissa il record negativo dietro Napoli, mentre Catanzaro è sotto la media nazionale.

La durata media dei giorni di durata dei processi in appello, tuttavia, non permette di apprezzare dati qualitativi sui singoli reati. La domanda quindi è: i processi per mafia, vista la loro potenziale difficoltà, si prescrivono più degli altri? In realtà, questo tendenzialmente non accade. La ragione è prettamente legata a cause processuali, che favoriscono la velocità in appello di questi reati.

I processi per mafia sono quelli in cui si contesta il reato associativo, il cosiddetto 416 bis – ovvero l’associazione per delinquere di stampo mafioso – e i reati cosiddetti “fine”, che descrivono l’attività criminale della cosca (i più diffusi sono il traffico di stupefacenti, l’usura, l’estorsione, il riciclaggio e oggi sempre più spesso anche reati finanziari). Come scrive il presidente dell’Unione camere penali italiane, Giandomenico Caiazza, si tratta di processi che «sono in larghissima percentuale a carico di imputati in stato di custodia cautelare».

A livello pratico, questo si traduce nella conseguenza che, a dettare i tempi della trattazione di questi processi, sono i termini di custodia. In altre parole, questi processi hanno una sorta di binario privilegiato per cui vengono celebrati con precedenza rispetto ad altri, perché il giudizio va celebrato prima della conclusione del termine di custodia cautelare previsto in quella fase (almeno per le imputazioni principali che hanno un termine che prorogabile fino a circa 2 anni). In questo modo, si evita che l’imputato torni a piede libero. «Nessuna Corte di Appello versa nelle condizioni di non riuscire a celebrare questi giudizi prima dello spirare del termine custodiale di fase. Possiamo anzi dire che è proprio la trattazione prioritaria di questa categoria di processi a determinare i gravi ritardi di trattazione dei tanti altri che per comodità vogliamo definire ordinari», conclude Caiazza.

In ogni caso, la mediazione trovata dal governo esclude l’improcedibilità per prescrizione processuale per tutti i reati di mafia.

Maledetto appello

L’appello nella maggior parte dei casi si conclude in una sola udienza o con un numero molto ridotto di udienze. Questo perché in appello la fase istruttoria non avviene, ma si esamina solo la parte appellata della sentenza di primo grado e la rinnovazione delle prove non è frequente, ma avviene solo se il giudice la consente su richiesta del ricorrente. Nonostante questo, il processo d’appello rimane il collo di bottiglia del sistema giudiziario italiano.

A produrre questo effetto è stata la riforma del 1998 che, per un numero importante di reati, ha sostituito nel primo grado il giudice monocratico al collegio. Tradotto: in primo grado nella maggior parte dei casi è un unico giudice a decidere e non più un collegio composto da tre. Questo ha decongestionato il primo grado ma ha progressivamente ingolfato l’appello: a fronte di un aumento di flusso di ricorsi, i giudizi d’appello sono sempre collegiali e l’organico nelle corti non è stato rafforzato. Per fare un esempio, infatti, a Roma il tempo solo per il passaggio di un fascicolo dal tribunale alla corte d’appello è di un anno, che si perde non per svolgere udienze ma per sole ragioni di organizzazione carente.

Per risolvere il problema, la scommessa della riforma Cartabia è proprio quella di incidere sulle corti che hanno maggiori problemi e percentuali disastrose, partendo dall’assunto che la prescrizione come patologia di sistema è un fenomeno “localizzabile”, la cui soluzione – che si traduce in una riduzione dei tempi del contenzioso – deve partire proprio dagli uffici.

La ministra della Giustizia ripete da giorni che la riforma del penale va letta per intero e non solo nella parte che riguarda la prescrizione: il testo prevede una serie di interventi che riguardano ogni fase processuale in modo da ridurne i tempi. Inoltre è prevista una massiccia campagna di assunzioni di funzionari e magistrati e la creazione dell’ufficio del processo, che dovrebbe essere un gruppo di lavoro formato da tirocinanti, magistrati onorari e cancellieri che coadiuvano il giudice in modo da velocizzarne il lavoro, in ottica soprattutto di smaltimento dell’arretrato. Rafforzare gli organici e una migliore organizzazione degli uffici dovrebbe permettere a Roma di raggiungere gli stessi livelli di efficienza di Palermo e Milano. D’altronde anche la riforma Bonafede che andrà salvo sorprese in soffitta prevedeva un potenziamento degli organici importante.

Inoltre, la riforma Cartabia prevede una nuova disciplina delle notificazioni, nuove norme che escludono la punibilità per tenuità del fatto e che sospendono il procedimento con messa alla prova. Infine, sono previsti dei meccanismi di allargamento del patteggiamento. Tutti strumenti che puntano a ridurre il contenzioso, soprattutto quello in appello. In questo modo, è la speranza del ministero, la prescrizione diventerà un fenomeno patologico a cui si arriverà per un numero ridottissimo di casi, in modo da raggiungere l’obiettivo fissato dall’Unione europea di ridurre del 25 per cento la durata dei giudizi penali. Un taglio, ricordiamolo, fondamentale anche per ottenere i soldi del Recovery fund.

I problemi di procedura

Se dal punto di vista della velocizzazione dei tempi la riforma Cartabia ha messo in campo una serie di soluzioni che dovrebbero snellire i processi, la nuova prescrizione prima sostanziale e poi processuale solleva però altri problemi di natura più prettamente procedurale, che l’accademia si è incaricata di far emergere. Si tratta, in particolare, di questioni che potrebbero finire davanti alla Corte costituzionale per ragioni legate alla disparità di trattamento degli imputati.

Giuristi come Giorgio Spangher, professore emerito di procedura penale alla Sapienza di Roma, inoltre, hanno paventato l’ipotesi di una parziale bocciatura europea: la Corte di giustizia, infatti, potrebbe autorizzare i giudici di merito a disapplicare l’improcedibilità ogni volta che vengano pregiudicati “gli interessi europei”, creando incertezza sui casi di applicabilità della norma. Sul fronte europeo, eventuali problematiche potrebbero anche venir sollevate davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, perché l’improcedibilità rischia di ledere gli interessi della vittima del reato, oltre a vanificare il diritto alla conclusione del processo con una sentenza di merito, sia a favore che a carico.

Infine – e questo è il pericolo forse maggiore – la natura processuale della prescrizione in appello e Cassazione fa venire meno il principio di irretroattività delle norme penali sostanziali previsto dall’articolo 25 della Costituzione. La corte costituzionale, allora, si troverebbe a dover decidere su possibili ricorsi in cui questa natura ibrida della prescrizione rende incerta l’applicazione della norma anche a casi precedenti.

Altro problema riguarda l’obbligatorietà dell’azione penale prevista dalla Costituzione all’articolo 112: la prescrizione processuale estingue il processo e non il reato, che però non potrebbe più venire perseguito per sole ragioni processuali, mettendo in discussione proprio il principio dell’obbligatorietà a perseguire i reati.

Infine, emerge un evidente problema pratico di possibili disparità di trattamento che risulta facilmente comprensibile con un esempio: il reato di estorsione si prescrive in 10 anni e, applicando l’attuale riforma della prescrizione si possono verificare due casi estremi. In primo grado il processo dura 10 anni meno un giorno, dunque rimane nel termine della prescrizione sostanziale e non muore. Poi il processo potrà durare altri due anni in appello e uno in cassazione per un totale di 13 anni per arrivare concretamente alla prescrizione. All’opposto, in un tribunale molto veloce il primo grado potrebbe durare 3 anni: sommando i 2 anni più 1 delle altre due fasi, lo stesso reato estorsivo si prescriverebbe in 6 anni.

Questi problemi si sono verificati perché la scelta del governo è stata quella di fare una crasi tra le due ipotesi di riforma della prescrizione previste dalla commissione di esperti presieduti dall’ex giudice e presidente della corte costituzionale Giorgio Lattanzi, che aveva il compito di proporre le modifiche al testo base del ddl penale.

La commissione aveva prodotto due ipotesi di riforma: la prima prevedeva di reintrodurre la prescrizione sostanziale anche in appello e Cassazione, ma con una sospensione di due anni in appello e uno per la cassazione. Se nel tempo di sospensione non si giungeva a sentenza, la prescrizione sostanziale riprendeva a decorrere. La seconda proposta invece prevedeva l’introduzione per tutti i gradi di giudizio della prescrizione processuale: la prescrizione sostanziale si interrompeva con l’esercizio dell’azione penale, poi la previsione di termini di fase di 4 anni per il primo grado, 3 per l’appello e 2 per la cassazione oltre i quali scattava l’improcedibilità.

Per ragioni di compromesso politico con il Movimento 5 stelle, che non voleva rinunciare allo stop alla prescrizione sostanziale dopo il primo grado, alla ministra non è rimasto che provare una sintesi tra le due proposte. Il risultato, tuttavia, è che la doppia natura sostanziale e processuale della prescrizione produce un istituto spurio, che interviene prima sul reato e poi sul processo, generando potenziali effetti aberranti. Tra le quali, anche e forse soprattutto una penalizzazione dell’innocente che – nelle corti più ingolfate – rischia di non poter ottenere una assoluzione piena ma solo la “morte” del processo per decorrenza dei termini, a meno che non accetti di rinunciare alla prescrizione.  

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