Più passano le ore dalla conferenza stampa del presidente del Consiglio e più aumenta l’impressione che abbia rotto una serie di schemi consolidati nella corsa al Colle. Mario Draghi resta comunque un marziano nel Palazzo.

I parlamentari lo guardano spesso “basiti”, direbbero gli sceneggiatori di Boris. Quando ad esempio spiega il Bilancio sono intimoriti e lo sentono estraneo.

Il primissimo a esprimersi in questo senso è stato proprio colui che finora nel Palazzo si è attribuito il merito di questo governo: Matteo Renzi. In politichese Renzi ha detto subito tre cose: il premier ha parlato troppo presto, si vota fra un mese; possiamo votare per il presidente con una maggioranza diversa da quella governativa, perché il ruolo di garanzia non è dato dall’ampiezza del voto parlamentare; il governo è il presidente del Consiglio.

Se cambia la persona cambia tutto, anche con la stessa maggioranza (e qui la memoria va ad un’intera stagione di governi democristiani, più o meno con la stessa formula per 50 anni).

Argomenti che in vario modo tutti gli altri leader e partiti hanno mostrato di apprezzare, a cominciare proprio da quel centro destra che appare sempre più eterodiretto proprio dal leader di Italia viva.

Fra i commentatori notevole che convergano Gad Lerner sul Fatto (“la candidatura di Draghi al Quirinale segna piuttosto la fine di una breve stagione che non l'inaugurazione di un'era nuova”) e Claudio Velardi su Huffington Post (“Mario Draghi ha inanellato errori politici in serie”).

CONTE SCOPRE I DUE FORNI

Nel vertice del centro destra a Villa Grande è stato infatti Ignazio La Russa, Fratelli d’Italia, a sintetizzare, secondo Emanuele Lauria di Repubblica, la situazione: «Berlusconi ha già l'atteggiamento non solo del candidato ma anche del vincitore».

Gianni Letta ha consigliato di aspettare a formalizzare la candidatura ma i presenti raccontano di un Cav scatenato. Su un candidato, o meglio candidata, del centro destra nelle ultime dichiarazioni punterebbero anche i 5 Stelle.

Perché? Che sta succedendo? Giuseppe Conte sta scoprendo i pregi della politica dei due forni di andreottiana memoria. Nel suo caso: se non si può cuocere il pane nel forno di Letta, ci si può sempre rivolgere al forno di Salvini. Soprattutto nella partita per il Colle, dove il gruppo parlamentare appare disposto a tutto pur di evitare le elezioni anticipate, avere la possibilità di avere alleanze variabili può essere molto utile. Ma a chi pensano? Ancora alla Letizia Moratti?

SUPERMARIO DIVENTA MARIOPIO

Questa storia di sentirsi un “nonno” in chiave quirinalizia, lì per lì, fa pensare a Sandro Pertini, che però non aveva figli ed ebbe sì nipoti ma come zio. Ma fu considerato da tutti il nonno d’Italia.

Ci sono stati invece molti nonni al Quirinale: Luigi Einaudi (uno dei nipoti è il famoso compositore Ludovico), Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Francesco Cossiga, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e naturalmente Sergio Mattarella.

Oltre a Pertini, l’altra eccezione è stata quella di Enrico De Nicola. Se poi torniamo indietro nel tempo, quando il Quirinale era la casa dei Papi, i nipoti erano importanti sì ma perché il titolare del Palazzo ricopriva il ruolo di zio.

Il nepotismo, dicono gli storici dell’arte, fu motore importante del mecenatismo nella Roma del Quattrocento, Cinquecento e Seicento. Come scrisse Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, che si sentiva poeta e che si era accorto di quante persone si presentavano come suoi parenti per avere onori e raccomandazioni: «Quand’era Enea niun mi conoscea / Or che son Pio tutti mi vogliono zio». Non per niente uno dei soprannomi romani di Draghi è “Mariopio".

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