Il colpo d’occhio già dice molto. In una casella c’è Matteo Renzi in maniche corte; nell’altra Dario Franceschini in grisaglia e location ministeriale con bandiere italoeuropee ai lati; in un’altra ancora Nicola Zingaretti in maglioncino crema, alle spalle una tela del siciliano anarchico e malinconico Croce Taravella. Alleati e compagni di partito, ma con visioni politiche tanto diverse, per non dire di quelle estetiche. Ma sono differenze che, in tempi di emergenza, più che sapersi si indovinano dalle litigate che filtrano dal parlamento. Così Massimo D’Alema li ha messi nello stesso schermo di Zoom, non da soli, invitandoli spericolatamente a parlare di «cantiere della sinistra». Del resto qualcuno doveva pur farlo. L’occasione è l’uscita dell’ultimo numero di Italianieuropei. Sono i giorni del Natale triste e «diverso» (copyright Giuseppe Conte) dell’èra del contagio. Ma sono anche quelli in cui il governo giallorosso rischia di saltare. D’Alema esibisce understatement, spiega che «compito di una rivista è mettere in collegamento persone, linguaggi e culture». «Qual è il percorso che la sinistra deve intraprendere nel futuro?» chiede infatti compostamente Mario Hubler, segretario generale della Fondazione Ie.

Non solo futuro

In realtà il problema non è solo il futuro della sinistra, anche il passato. E D’Alema, del suo, dallo sbando sulla Terza via all’illusione del Pd, dice ormai che «cercando il 51 per cento ci siamo persi quel 30 che dovremmo rappresentare», «per inseguire l’ambizione maggioritaria abbiamo appannato la nostra identità» e smarrito l’elettorato. Ovvero perso il popolo. Il giudice costituzionale Giuliano Amato, «vecchio socialista» e anche lui ex premier, invoca indulgenza: la sinistra che ha imboccato la Terza via non era «inconsapevole dell’errore», ma già «impotente». Anche per Goffredo Bettini, padre del Pd e almeno zio del governo Conte, gli anni fatali sono stati quelli fra il crollo del Muro e il crollo dei partiti di massa, dall’89 al 92: «Dalla crisi del passato non è sorto un soggetto collettivo di combattimento, una forma politica del conflitto sociale». Ora, pur elogiando il segretario del Pd Nicola Zingaretti, dice che «serve una rifondazione». Ce n’è già stata una, proprio in quegli anni, ma i presenti non ne tengono conto.

«Serve un’ideologia» dice senza complessi la politologa Nadia Urbinati, nominando la parola che altri non osano, forse perché la subalternità culturale, se è malattia guaribile, non è guaribile in pochi decenni. E per ideologia intende «non fumo negli occhi, ma una narrativa di un sistema valoriale, quello che è nell’art.3 della Costituzione», «Non uno vale uno e tutti fanno tutto, non l’uguaglianza come un rasoio che rende tutti identici, ma la capacità di rendere tutti attivi», e questo si può fare solo ripristinando i corpi intermedi, i partiti, perché «una moltitudine senza organizzazione diventa opposizione dei molti contro i pochi, populismo crea populismo». «L’evento pandemico sta ridisegnando il mondo», «accelera la crisi del neoliberismo», ragiona la filosofa Ida Dominjanni, ma il populismo non è sconfitto, e dal conflitto fra restaurazione e «speranze» di cambiamento «si può fare un salto avanti oppure due salti all’indietro». Quanto all’Italia, non si può credere che «la funzione della politica si esaurisca nel governo» né «intonare il solito ritornello del centro».

Voglia di centro

Che invece è quello che pensa Renzi. Qui non se ne parla, ma circolano voci che sta per accogliere altri quattro dem in Italia viva. Qui lui prova il vecchio numero dello sfottò agli ex Pci, «se volete faccio anch’io l’autocritica». Poi spara la sua cartuccia: «Biden ha vinto grazie a forze che rappresentano il mondo della sinistra, ma senza Biden nessuno avrebbe potuto vincere», e «la differenza fra destra e sinistra rimane, ma anche fra sinistra e sinistra». Il tema resta nell’aria. Ma il ministro Roberto Speranza, che dal Pd è uscito contro Renzi - come D’Alema – non lo raccoglie a favore di un altro ritornello: «Mettersi tutti in discussione per un processo largo». Incassa i dubbi di Elly Schlein, già Pd tendenza Civati, poi eletta vicepresidente dell’Emilia Romagna con una lista civica: «Non è una soluzione confluire in un Pd che non ha dato un segno chiaro sulle cose che ci hanno divisi, dal lavoro all’immigrazione. Serve fare una rete».

Zingaretti, che ha uno stile meno pimpante del suo predecessore ma a sua differenza è il leader di una forza del 20 per cento, promette: «Ora è evidente che deve aprirsi una fase nuova», «in modo che si ricomponga un mondo in una visione. Il minimo comun denominatore deve essere la certezza che non dobbiamo tornare alla stagione pre-covid, a una presunta normalità perduta, perché non era soddisfacente. Basta con la subalternità politica che avevamo in passato». E’ d’accordo Dario Franceschini, che aggiunge una nota di pragmatismo. Mandare a casa Salvini «non è un risultato di poco conto» ma questa coabitazione di governo sta «forgiando qualcosa di più, non è ancora un centrosinistra, ma questa alleanza è inesorabile se vogliamo tornare a governare», la legge elettorale deciderà solo se farla prima o dopo, «ma da soli non arriviamo al 30 per cento». E siamo di nuovo nelle corde di D’Alema. Per il quale il governo giallorosso era una scelta obbligata, per sventare il governo dei sovranisti ma anche perché «così si rafforza la democrazia, si costituzionalizza quel nuovo, se è compatibile. Ma non basta: c’è bisogno di una forza politica che abbia una ideologia, cioè una narrazione e una visione del futuro».

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