Martedì 10 e mercoledì 11 maggio 2022.

Sembra passato un secolo. Nel mezzo tanta vita è scorsa.
Un’estate torrida che ancora oggi, a novembre, sembra non volerci abbandonare, che ci ha portato in dono la caduta del governo Draghi e, ad autunno appena iniziato, il ritorno alle urne. Lo scorso 25 settembre, gli italiani hanno scelto un nome e un cognome: Giorgia Meloni. E un partito. Fratelli d’Italia.

Tutto il resto è marginale, residuale.

L’Italia, che strano rimescolio di temi presenti e passati, di fenomeni assolutamente trendy e di altri vetusti, ma incredibilmente resistenti, si è così ritrovata per la prima volta una premier donna. Di nero vestita.

Una donna che rappresenta l’esatto opposto, nessuno si offenda, rispetto all’ideale auspicato da tante e tanti per quel ruolo e quella poltrona. Uno scatto nella contemporaneità, dunque, ma dal sapore assolutamente novecentesco, nostalgico.

Una leader di un partito di destra, all’interno di una maggioranza dove gli altri partiti giocheranno ruoli secondari, se non suicidari. Il primo è Forza Italia, che dovrebbe rappresentare l’area moderata del governo medesimo. Partito guidato, ricordiamolo, da un uomo che si cala ogni giorno di più nella scrittura veterotestamentaria, nel mito, perché Silvio Berlusconi oramai questo è: un Sansone attorniato da filistei che periranno assieme a lui. Uno spettacolo che impietosisce. È un giudizio duro, ma questo viene da dire a guardarlo.

L’altro partito, destrorso tanto quanto Fratelli d’Italia, soltanto più caotico e disperatamente legato a un leader che negli ultimi due anni ha sbagliato tutto quello che era possibile, Matteo Salvini, che sino all’ultimo lotterà per avere più caselle possibile nello scacchiere del potere reale.

Questo ha voluto il popolo italiano scegliendo democraticamente i suoi rappresentanti, e con questo convivremo, almeno per i prossimi mesi.

Parlare di anni, nella politica italiana, è diventato per certi aspetti inelegante.

Ma ritorniamo a quelle date messe nero su bianco in esergo.
Martedì 10 e mercoledì 11 maggio 2022.

Per il progetto Adotta uno scrittore, organizzato dal Salone Internazionale del Libro di Torino, in collaborazione con Fondazione Con il Sud, mi sono ritrovato alla casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria.

L’idea nobile del progetto Adotta uno scrittore è di spedire autori viventi nelle scuole di ogni ordine e grado, anche dentro quelle che si svolgono negli istituti di pena e gli alunni sono detenuti. Dove il titolo da raggiungere è quello sancito dal diritto allo studio: la licenza elementare o il diploma di scuola media.

Arrivo a Reggio Calabria e di corsa mi portano al carcere, per la prima lezione. Ne terrò quattro in tutto, due per ciascuno dei gruppi che incontrerò.

Entrare in un carcere, per chi non lo avesse mai fatto, e per chi come lo scrivente fa fatica a sentirsi obbligato in luoghi chiusi, non è piacevole affatto, ma questa è cosa nota.

Una teoria di porte inchiavate alle mie spalle.

Senza telefono, senza nulla in grado di potersi trasformare in oggetto di offesa, arrivo all’aula. In mia compagnia il professore di ruolo che esercita nel carcere, Stefano Morabito, un ragazzo calabrese, un uomo che conosce bene l’humus di queste zone, che ne è difensore e accusatore come capita spesso a chi ama la propria terra. E lui la Calabria, tutta, la ama sinceramente.

Ed ecco il primo gruppo. E la prima sorpresa. Mi si presentano una quindicina di uomini tra i trenta e i sessanta.
«Loro sono tutti calabresi, tutti ‘ndranghetisti, tanti all’ergastolo».

La faccia nera della luna. Quella che non vediamo, ma possiamo solo immaginare.

Ognuno di questi uomini ha le sue ragioni, giustificazioni, qui gli infami sono i giudici, e tra i tanti occhi che mi guardano, alcuni colmi di una pena da togliere il fiato, chissà, se fra tutte queste manifestazioni non richieste d’innocenza ce n’è qualcuna vera, tragicamente vera. Un ragazzo, il più giovane del gruppo, mi racconta che l’unica sua colpa è avere in quella terra un cognome troppo pesante, da sempre mischiato alla criminalità, ma lui, lui non ha mai fatto niente. Stava fuori un bar. E lo hanno preso.

«Quanti anni ti mancano?»

Mi guarda con un sorriso che non dimenticherò.

«Dodici, se tutto va bene». 

Nel 2034, questo ragazzo finirà la sua pena nel 2034. E qui dentro, mi spiega il professor Morabito, è uno di quelli messo meglio.

Finisce la prima lezione, cambio di classe.

LaPresse

Dopo qualche minuto, una decina di ragazzi giovanissimi, tutti tra i 20 e i 30 anni al massimo, prende il posto dei calabresi.
«Loro sono tutti napoletani, pure loro affiliati, tanti scissionisti, barbudos». 

È sempre Morabito a darmi le informazioni del caso. Nei due gruppi che incontro non c’è uno straniero. Il Panzera è un carcere, almeno le sezioni che mi hanno fatto conoscere, dedicato esclusivamente a persone che scontano reati legati all’affiliazione di stampo mafioso. Tutti italiani.

I ragazzi sono più duri, almeno all’inizio, poi basta una battuta sul Napoli e lentamente il clima si stempera. La dinamica è contraria a quella accaduta nella lezione precedenti con i calabresi più adulti.
Ora i ragazzi napoletani non stanno più zitti. Ognuno vuole raccontare il suo personale pezzo d’inferno. Anche qui l’innocenza è il minimo comun denominatore. Anzi, non l’innocenza, ma la necessità. I reati non si negano, è il perché, le ragioni che ne hanno scatenato il bisogno, che a loro interessa spiegare, discutere. In tanti raccontano le condizioni del carcere in cui sono reclusi. Il Panzera, effettivamente, non sembra messo nel migliore dei modi. Il mito, per tutti, è Bollate. L’istituto di pena milanese. Ne parlano come di un albergo a cinque stelle, con servizi e possibilità, altra cosa rispetto a questo palazzone vecchio e fatiscente. Bollate, lo è veramente, è uno delle realtà più innovative sul nostro territorio, soprattutto in termini di rieducazione e di formazione al lavoro dei detenuti.

«Professò».

Un ragazzo bellissimo, con la barba lunga, curata come fosse appena uscito dal barbiere, mi chiede attenzione, è uno di quelli che non ha mai parlato.

«Io ho due figli fatti in provetta, perché la legge solo così me li fa fare, ho una compagna, secondo lei una seconda possibilità me la merito?»
«Una seconda possibilità se la meritano tutti. Sempre. Non solo una seconda».

Ancora oggi, non so quale parte di me abbia risposto con tanto impeto. Credo che a darmi tanta sicurezza non sia stata l’educazione laica, l’amore per la letteratura, ma l’immagine delle immagini. Anche per chi, come me, aspira alla fede senza averla.
Il Golgota. È il ladrone che con l’ultimo filo di fiato si addossa le sue responsabilità e infine chiede a Cristo di ricordarsi di lui.

Un paradiso, per chi si pente, per chi ha espiato, deve pur esistere.
E se non esiste quello oltremondano, lo sapremo solo a fine vita, almeno qui sulla terra uno stato che si dichiara civile deve prevedere, come un comandamento fondamentale, la possibilità di reinserire nella società un essere umano che ha commesso uno sbaglio.

Lui si carezza la barba lunga e fluente, mi guarda con un sorriso storto.

«Allora perché non va in televisione a dire che il fine pena mai esiste ancora? Che l’ergastolo ostativo è la stessa cosa? Se non cambiano la legge io qui ci rimango per sempre. Allora perché non spararmi in testa. Non è più onesto, professò?».

Ne so poco, troppo poco, e quello che so è da lettura di giornali.

«L’ergastolo ostativo è disposto per quelli che non si pentono, o non aiutano la giustizia, per quelli…».

Esplodono tutti a ridere. È sempre lui, il barbudos, a riprendermi.

«Professò, ma se lei stesse chiuso dentro un carcere, con la famiglia fuori, con nessuno che li difende, ma lei si metterebbe a parlare? O farebbe il sacrificio di starsene chiuso per sempre dentro un posto di merda come questo pur di non fargli succedere niente?».

Non rispondo. Semplicemente perché di fronte agli occhi ho mia moglie e i miei figli. E l’immedesimazione a fare il resto.

«Bravo professò. A parlare da liberi si fa presto».

Lunedì 31 ottobre

LaPresse

Il primo decreto legge del governo Meloni, la prima azione del nuovo esecutivo, per ironia della sorte ha avuto come oggetto proprio l’ergastolo ostativo. E non certo per rendere questa pratica più umana. Fra le novità, l’esclusione dell’automatismo ai benefici previsti e l’innalzamento da 26 a 30 anni di pena trascorsa in carcere prima di accedere agli stessi.

Di fatto, anziché procedere in direzione delle richieste della Corte europea, che da tempo addita l’ergastolo ostativo quale misura penale non comprimibile, e dunque contraria al principio di dignità umana, si è andati verso un ulteriore imbarbarimento della norma.
Anche la giunta dell’Unione delle camere penali, in una nota, ha parlato di: inammissibile peggioramento – rispetto a quello già oggetto della valutazione di incostituzionalità della Corte – del quadro normativo in tema di ostatività.

Da Cesare Beccaria al Vangelo secondo Luca.

Il primo decreto legge del governo Meloni è riuscito a mettere tutti d’accordo.

Ai detenuti della casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria, a tutti i detenuti, un abbraccio. La promessa è stata mantenuta.

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