Nel cimitero Flaminio di Roma c’è un’ala particolare, un piccolo prato nel quadrante sud. Ospita una distesa di croci di legno a cui sono appese targhe con soli nomi femminili e sotto un’unica data. Ad essere sepolti in quelle tombe sono i feti abortiti tra la ventesima e la ventottesima settimana, i nomi sulle lapidi di fortuna sono quelli delle donne che non hanno portato a termine la gravidanza e formano una sorta di elenco pubblico a cielo aperto.

I nomi sono quelli di donne che hanno abortito regolarmente, in strutture pubbliche gestite dalla Asl. Al momento della firma dei documenti per l’interruzione di gravidanza hanno potuto scegliere se procedere autonomamente alla sepoltura del feto. Nel caso di mancata decisione espressa da parte della paziente, però, è la stessa azienda sanitaria a disporre la sepoltura di quello che i cimiteri capitolini chiamano «i “prodotti del concepimento” o i feti che non hanno avuto onoranze funebri».

A sollevare il caso è stato il post su Facebook della romana M. L., che ha pubblicato la foto della croce con il suo nome ed è stato condiviso da novemila persone. A questo è seguita un'interrogazione parlamentare e una al presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, firmate dal deputato radicale Riccardo Magi, da Rossella Muroni di Leu e la democratica Laura Boldrini, la capogruppo della lista Zingaretti Marta Bonafoni e il capogruppo radicale del Lazio Alessandro Capriccioli.

«Non è la mia tomba»

«Questa non è la mia tomba, ma è quella di mio figlio», scrive M.L., raccontando che «nel momento in cui firmai tutti i fogli relativi alla mia interruzione terapeutica di gravidanza, mi chiesero: "Vuole procedere lei con esequie e sepoltura?". Risposi che non volevo procedere, per motivi miei, personali».

Dopo sette mesi dall’aborto, al momento del ritiro del referto istologico, la donna decide di informarsi su che cosa sia successo al feto. La struttura sanitaria le fornisce risposte vaghe, così lei contatta direttamente la camera mortuaria, che le chiede il nome e la informa che il feto è conservato da loro. «Signora noi li teniamo perché a volte i genitori ci ripensano. Stia tranquilla: anche se lei non ha firmato per sepoltura, il feto verrà comunque seppellito per beneficenza. Non si preoccupi, avrà un suo posto con una sua croce e lo troverà con il suo nome», le rispondono. Lei chiede con quale nome, visto che il feto è nato morto e non è stato registrato. «Il suo signora. La chiameremo noi quando sarà spostato al cimitero».

Così succede. Nel post, la donna contesta la violazione della privacy e racconta l’angoscia nel «vedere che senza il mio consenso altri abbiano seppellito mio figlio con una croce, simbolo cristiano, che non mi appartiene e con scritto il mio nome». Il post è stato ripreso da Repubblica, il Corriere e Sky, oltre ad alcune testate locali.

L’Ama, l’azienda di Roma che si occupa dei servizi cimiteriali, ha scritto in un comunicato stampa: «La struttura cimiteriale si è limitata ad eseguire la sepoltura a fronte di un consenso già dato per espresso dalla struttura sanitaria richiedente. Ci dogliamo nell’apprendere che quella non fosse la volontà della signora». Quanto alla croce, «è il simbolo tradizionalmente in uso, in mancanza di una diversa volontà, mentre l’epigrafe deve in ogni caso, in assenza di un nome assegnato, riportare alcune indicazioni basilari per individuare la sepoltura».

(Illustrazione di Gianluca Costantini)

La normativa

I cimiteri italiani sono pieni di questi campi di lapidi con nomi di donne vive. Questo avviene sulla base di una serie di leggi che variano da territorio a territorio. Una legge del 1990 sul regolamento nazionale di polizia mortuaria e un decreto del 2003 prevedono che, nel caso in cui i genitori non vogliano darne sepoltura, i feti abortiti prima della ventesima settimana di gravidanza vengano disposti come rifiuti speciali e distrutti nell’inceneritore.

Dalla ventesima alla ventottesima settimana, le aziende ospedaliere sono invece obbligate alla tumulazione in fosse comuni. Dopo la ventottesima settimana, invece, i feti sono considerati bambini e possono essere registrati all’anagrafe come nati morti. La gestione, però, è diversa in ogni regione.

Nel Lazio manca una legge, dunque le strutture cimiteriali applicano la normativa nazionale o le indicazioni del comune: a Roma, nel 2012, l’allora sindaco di centrodestra, Gianni Alemanno, inaugurò al cimitero Laurentino il “giardino degli angeli”, per la sepoltura dei feti. Nel 2007, fece discutere la decisione della Lombardia, guidata dal presidente Roberto Formigoni, membro del movimento Comunione e liberazione. La giunta approvò una legge che imponeva a tutti i comuni lombardi di dare sepoltura, qualora non lo avessero fatto i genitori, anche ai feti abortiti prima della ventesima settimana. «Se il funerale non sarà richiesto, l’embrione verrà comunque sepolto perché merita in ogni caso un minimo di rispetto», aveva dichiarato Formigoni.

La legge regionale è stata modificata solo nel 2019, con un emendamento del Partito democratico votato all’unanimità che stabilisce che la sepoltura degli embrioni avviene «esclusivamente con la esplicita richiesta della donna o di chi è titolato alla decisione». Il governatore Attilio Fontana, tuttavia, ha deciso di attivare l’iter legislativo per ritornare alla legge Formigoni.

La privacy

Il problema della violazione della privacy è stata affrontata nel 2015 dal comune di Torino. La soluzione trovata è stata quella di una lapide con il numero di serie e la data di interruzione di gravidanza. Non solo, però: il comune non ha voluto rinunciare a indicare un nome. Che però, trattandosi di feti abortiti, nessuno ha scelto. Così, è un funzionario comunale a scegliere a proprio piacimento un nome di fantasia da scrivere sul marmo.

L’assessore dell’epoca, Stefano Lo Russo, lo ha definito «un compromesso per non lasciare le lapidi senza un nome, un fatto perlopiù estetico».L’obbligatorietà della sepoltura e la pratica silentemente consolidata del nome della donna sulla lapide spesso all’insaputa delle dirette interessate ha riaperto il tema della minaccia alla legge 194, che disciplina l’aborto. «È come a dire a tutti: "La signora ha abortito”», ha scritto su Facebook la senatrice del Pd, Monica Cirinnà.

Dietro l’obbligo di sepoltura del feto, tuttavia, sta il grande non detto: gli si dà una tomba perché non sarebbe un “prodotto del concepimento” ma un bambino mai nato. Nel mezzo della disputa etica tra associazioni pro life e attivisti per i diritti civili sulla qualificazione soggettiva del feto, tuttavia, finisce dolorosamente la donna. Lo stato le ricononsce il diritto di abortire, ma impone come contropartita pubblica la posa di una lapide con il suo nome inciso sopra.


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