Unità, responsabilità, il segretario del Pd Nicola Zingaretti risponde alle critiche che in questi giorni si vede piovere da dentro il partito. Lo fa aprendo la direzione del suo partito, convocata via Zoom, dopo un minuto di silenzio dedicato a Franco Marini, il leader sindacalista e padre fondatore del Pd appena scomparso. Zingaretti respinge l’accusa di aver compresso il dibattito interno: «Credo che nessun partito abbia coinvolto gli organismi statutari, abbia discusso come il nostro nei passaggi fondamentali» e l’unità di cui Zingaretti è sicuro va opposta a «chi vuole destabilizzare il sistema politico» e «sta mirando proprio al Pd e alla sua funzione». Ce l’ha con Italia viva e «l’insieme delle forze che hanno tentato di destrutturare la rappresentanza politica».

Ora c’è Mario Draghi, le cui priorità «coincidono con le nostre, a partire da una fiducia piena con l'Europa», con lui c’è una «sintonia profonda». «Nessun imbarazzo per il Pd» dunque, la presenza nella maggioranza dei sovranisti della Lega, che resta «una forza avversaria e alternativa», «Sarà difficile per altri coniugare le proprie esigenze con il programma del professor Draghi. Per noi no». Ma certo è una «condizione eccezionale», «inedita». A partire dal fatto che il Pd ancora non conosce i nomi dell'esecutivo. Il Pd «si atterrà» alle scelte di Draghi «ma anche in questo quadro chiediamo una squadra autorevole formata nel rispetto del pluralismo politico e che rispetti la questione di genere». Poi, in parlamento, chiederà di avviare «una Costituente per le riforme che compensino il taglio dei parlamentari a cominciare dalla legge elettorale»

Il confronto interno

Sul fronte interno, Zingaretti accetta la sfida e convoca entro febbraio l’assemblea nazionale del partito, «per avviare una discussione sul futuro» anche in vista delle elezioni amministrative, sempreché si tengano. Ma quello che propone non è il congresso. Del resto l’assedio di cui il segretario è oggetto non affiora dagli organismi di partito. Al Nazareno viene definita «la mozione Renzi torna a casa», dall’invito che già un anno fa fece il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini al leader di Iv. Un’area di personalità che, a vario titolo, chiedono che il segretario corregga il giudizio sulla crisi aperta dal leader di Iv, a prescindere da quello sul governo che sta per nascere. E che rompa l’alleanza con i Cinque stelle, esattamente come la pensa Renzi (il che non gli ha impedito di proporre un governo con loro nell’estate del 2019). Zingaretti risponde la formula di sempre, guardando alle prossime politiche: «Non esiste alcun modello politico da imporre ai territori. Non potrei certo farlo io. Sono anche un amministratore».

Ma dalla corrente Base riformista (Guerini-Lotti) sono ormai quotidiane le richieste di congresso anticipato. Non solo. «So che il congresso non è previsto quest’anno», dice per esempio il senatore Tommaso Nannicini, «ma deve comunque esserci una discussione tra militanti, iscritti ed elettori sull'identità del partito. Abbiamo fatto l'ultimo congresso un’era geologica fa, quando eravamo all'opposizione del governo gialloverde. Non è possibile che l'identità del Partito democratico venga decisa e comunicata tramite le interviste dei suoi dirigenti sui giornali». Base riformista prova a tirare la volata a Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna e capo della conferenza delle Regioni in questi giorni molto presente sui media. Quella degli amministratori «è una parte che va valorizzata ma una corrente», assicura Dario Nardella, successore di Renzi a Firenze e amico di sempre: «Io credo che presidenti di Regione come Bonaccini e sindaci del Pd non siano una corrente ma il cuore vero del consenso che ha questo partito oggi», dice a La7, «Quando ci furono le elezioni europee il Pd non fece un grande risultato» ma alle amministrative «i candidati dem ribaltarono il voto delle europee. Oggi gli amministratori locali rappresentiamo la parte più avanzata, inclusiva e credibile del nostro partito».

Secondo chi è vicino al segretario, nel caso il governo Draghi non dovesse durare fino a fine legislatura, sarebbe ancora Nicola Zingaretti a decidere le liste del prossimo parlamento, quello pesantemente decurtato dal taglio degli eletti (del 36,5 per cento, per un totale di 400 deputati e 200 senatori rispettivamente contro 630 e 315). Nella speranza che la presenza della Lega nel nuovo esecutivo sia poco ingombrante. Non basta che Salvini abbia dato ordine ai suoi di votare sì al Recovery plan, e che il gruppo europeo delle destre radicali si sia di fatto ormai spaccato. «Dovremo valutare i rapporti di Salvini con il Ppe e con i suoi soci di oggi che sono i sovranisti», dice il vicesegretario Andrea Orlando, dovremo spiegare alla Merkel e a Macron, è un problema del paese e non solo del Pd, che l'alleato dei loro principali avversari, entra nel governo».

In realtà da Bruxelles, per ora, non arrivano segni di preoccupazione, eccezion fatta per quella della spagnola Iratxe Garcia Perez, la leader dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo. Mario Draghi viene considerato uno scudo per qualsiasi sovranista pentito dovesse imbarcare nel suo governo. Che non ci sia Matteo Salvini nell’esecutivo Draghi è, per il Pd, solo una «ragionevole certezza». Secondo il Nazareno, da cui a ieri sera si giurava di non aver avuto mai contatti con il premier incaricato sui ministri, sarebbe lo stesso Draghi a voler evitare di avere Salvini come ministro. Per questo avrebbe scelto di tenere fuori tutti i leader di partito: lo stesso Zingaretti, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Art.1 spera che venga fatta eccezione per il ministro della Salute Roberto Speranza, che è anche portavoce del loro piccolo partito.

© Riproduzione riservata