Se oggi fosse ancora vivo Guy Debord si sentirebbe un profeta vedendo i politici italiani presentarsi in cravatta e stivali sporchi di fango in parlamento, sfoggiare felpe intonate a ogni degustazione di prodotti tipici o raccontare barzellette sulle proprie prodezze sessuali.

Era il lontano 1967 quando nel suo saggio “La società dello spettacolo” il filosofo francese ci spiegava come ormai il rapporto tra le persone venisse regolato in base all’apparenza della propria immagine piuttosto che alla realtà di ciò che ciascuno è. «Più egli contempla, meno vive» – scriveva dell’uomo contemporaneo.

Certo, era il pensiero tranchant di un filosofo marxista che sperimentava il potere della televisione sulle masse, ma non appare troppo datato alla luce di quanto i nuovi media abbiano centuplicato l’impatto delle immagini.

Essere virali

Politica e spettacolo sono inscindibili nella società contemporanea, ma oggi le partecipazioni nella tv generalista, gli slogan e le pose sembrano pensati apposta per diventare virali.

Strumenti in grado di amplificare enormemente il consenso perché sostituiscono la necessità di spiegare la realtà in cui siamo immersi, rimpiazzandola con il semplice apparire.

Del resto è comprensibile: per la politica di oggi è difficile entrare nel merito dei complessi meccanismi che regolano l’immigrazione, la guerra o la manovra finanziaria. Piuttosto che dimostrare la capacità di affrontare questi punti con un approccio pragmatico, meglio lasciare che i cittadini facciano la loro scelta in base all’empatia.

Il fenomeno è diventato così globale, immersivo e pervasivo da rafforzare l’impressione che la politica si affidi allo spettacolo perché confusa e vuota di contenuti. Tuttavia, non dobbiamo essere frettolosi nel dare ragione a Debord e giudicare lo spettacolo semplicemente come un’arma di distrazione di massa.

Quello che a prima vista può sembrare un abominio della modernità, con la giusta narrativa può trasformarsi persino in un’importante risorsa nel difficile rapporto tra politica e società.

Bisogno di simboli

Le immagini hanno, infatti, la capacità di evocare in maniera diretta proprio i valori e principi che sono alla base della politica, quelli che hanno a che fare con la nostra visione del futuro e rafforzano la personale comprensione di ciò che è giusto o sbagliato.

È un fenomeno che fa leva sul nostro substrato culturale più immediato: la “pancia”, per usare un’espressione comune. Anche se non sono in grado di portarci a ragionare sulla complessità, le immagini possono aiutarci a ricostruire un fondamentale rapporto con le idee. Non è certo qualcosa di poco conto in una cultura sempre più legata alla soddisfazione immediata dei bisogni.

L’uomo ha sempre avuto bisogno di simboli per riuscire a focalizzare ciò che desidera e riaccendere così la propria coscienza a un livello di sensibilità più profondo. In fondo, in un organismo la pancia è importante quanto il cervello, soprattutto se permette di attivarci emotivamente, stimolando la nostra partecipazione in una società sempre meno disposta a lasciarsi comprendere.

Quindi ben vengano anche stivali, pianti in diretta, felpe, cagnolini e dinner talk se servono a farci capire cosa vogliamo per il nostro futuro.

Certo, lo sappiamo, la pancia non basta, bisogna che anche la testa faccia la sua parte. La partecipazione democratica e politica è fatta tanto di radicamento di principi e valori, quanto di capacità di azione.

Se oggi la politica sembra in grado di mobilitarsi e mobilitare sul primo aspetto anche grazie allo “spettacolo”, sul secondo non sembra ancora avere strumenti sufficientemente efficaci per comunicare realmente. Una sfida da raccogliere con urgenza in tempi in cui si discute sui fondamenti del legame tra politica e società. E chissà, forse un giorno potrà diventare virale anche la necessità di partecipare alla complessità del mondo.

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