A dire molto del clima interno ai 5 stelle in questa vigilia elettorale è stata la faccia del ministro Luigi Di Maio, venerdì sera, in collegamento con La7 dalla sua Campania, mentre pattinava sul tema del voto disgiunto a favore dei candidati presidenti dem che l’alleato Nicola Zingaretti ha chiesto in tutte le regioni al voto. «Io ovviamente sono leale ai nostri candidati. Non sono uno che pensa che agli elettori bisogna dire che devono fare, decideranno loro a chi affidare la loro sanità, le chiavi dei vostri ospedali», ha spiegato con un sorriso particolarmente tirato, «Detto ciò, io avrei gestito diversamente queste regionali, perché se al governo prendiamo un indirizzo, anche a livello regionale bisogna orientare le politiche territoriali a quelle nazionali». Quasi contemporaneamente, ma lui ancora non lo sapeva, Alessandro Di Battista a Bari, sul palco a fianco della candidata Antonella Laricchia, intonava un puntuale controcanto proprio sull’ipotesi di voto disgiunto, escludendolo senza tentennamenti. E declamando con il suo stile che «la cabina elettorale non è un vespasiano». L’ex deputato rivelava implicitamente cosa pensa di ogni valutazione politica e conseguente scelta di voto – anche dell’elettorato M5s – dettati dalla preoccupazione per la tenuta del governo alla vigilia delle fondamentali scelte su come spendere i soldi in arrivo dall’Europa.

Le due scene contemporanee sono la rappresentazione plastica delle distanze interne ai grillini. I leader del movimento, diretto nella sua ultradecennale vita in tutti i momenti cruciali dall’alto e a tratti dalla piattaforma, stavolta devono affidarsi al loro «popolo». Sperando che nelle urne dia un’indicazione per i prossimi stati generali (che Di Maio non vuole chiamare congresso). Un «popolo» la cui parte militante ha già votato a favore delle alleanze con il Pd. Non è dunque solo il segretario del Pd Nicola Zingaretti a giocarsi la leadership su una linea rossa appenninica che passa dalla Toscana alla Puglia, due regioni in bilico che potrebbero segnare la sua fine politica o il suo rilancio.

La posta in casa pentastellata

In casa 5 stelle, dove nessun candidato regionale può ambire a molto più che un’azione di disturbo del candidato del centrosinistra (tranne la Liguria), la posta è ugualmente alta. Per quanto tutti esibiscano ragionate sicurezze sulla tenuta del governo, un eventuale tonfo del Pd – a cui i pentastellati avrebbero contribuito in maniera sostanziale – si ripercuoterebbe per forza sulla maggioranza. Gli scenari sono diversi a seconda delle diverse combinazioni dei risultati, ma la verità è che una sconfitta complessiva delle forze di maggioranza avrebbe esiti al momento imponderabili. La sola affermazione piena del Sì al referendum non basterebbe neanche alla principale forza che lo ha sostenuto. Tanto più che questa eventualità sembra ormai improbabile: chi vota No è tradizionalmente più motivato, un’affluenza bassa potrebbe giocare un brutto scherzo ai sostenitori del Sì. E’ l’eventualità che sta alla base della richiesta – contestatissima – degli election day, l’abbinamento del voto referendario a quello delle sette regioni, quasi venti milioni di persone al voto, e dei quasi mille comuni per quasi sei milioni di persone.

Un’altra Lega è possibile

A destra la scommessa non è meno pericolosa. La smagliante vittoria di Luca Zaia in Veneto accelererebbe fatalmente la traiettoria calante di Matteo Salvini, segnalando ai militanti che un’altra Lega è possibile, certezza che una parte del gruppo dirigente ha sin dall’agosto 2019 quando il leader da centro del governo gialloverde si si risvegliò all’improvvo all’opposizione. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, dopo un periodo di favore mediatico, ha abbassato i toni. Anche sul taglio dei parlamentari ha attenuato il Sì granitico delle prime ore. E ha impegnato meno decibel, dopo che uno degli uomini-macchina del suo partito, girando dal Veneto alla Puglia per la campagna elettorale, le ha spiegato che nei territori «la gente è per il sì, ma i nostri ormai odiano i Cinquestelle e votano no».

«Non basta un leader»

Ma certo la campagna elettorale più sofferta e combattuta è stata quella di Nicola Zingaretti. Il segretario del Pd ha macinato migliaia di chilometri e toccato decine di città, da Reggio Calabria a Trani, a sostegno dei candidati presidenti di regione e sindaci, obbedendo all’imperativo morale di “metterci la faccia”. Nel marzo del 2019 ha preso in carico un partito al 18 per cento in pieno governo gialloverde. Poi la nascita dell’esecutivo giallorosso, subito dopo la scissione renziana. «Il partito non è mai stato così unito”» ha giurato all’ultima direzione. Ma è un dato che non tutto il gruppo dirigente si è attivato quanto era necessario in vista delle urne. E di più: l’ala “riformista” che si sta coagulando intorno al presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha usato la campagna elettorale per un anticipo di campagna congressuale. Proprio Bonaccini alla festa dell’Unità di Modena ha prefigurato già un disegno di un nuovo partito, che assomiglia a quello mandato in soffitta per manifesta sconfitta: «Rientrino pure Renzi e Bersani», ha detto, «ma noi dobbiamo riportare nel Pd quelli che sono usciti e non ci votano più. Il Pd non può rimanere al 20 per cento». Più che un auspicio è suonato come una promessa a Italia viva, dove ormai la scommessa di un partito riformista di centro sembra persa senza appello. Zingaretti ha evitato commenti. E continuato la campagna elettorale, provando a mobilitare la base: «La differenza non la fa Zingaretti», ha detto in un comizio in Toscana, «e quando ci siamo illusi che la differenza la facesse il leader, abbiamo pagato dei prezzi drammatici, trovandoci di fronte a delle sconfitte drammatiche. La differenza in democrazia la fanno le persone, la comunità, quando capisce la posta in gioco».

La guerra dei sondaggi

La guerra di nervi a sinistra si è giocata anche sui sondaggi. Non è una prima volta che succede. Già alle scorse regionali sull’Emilia Romagna venivano fatti circolare sondaggi che davano Bonaccini testa a testa con la leghista Lucia Borgonzoni. Alla fine il distacco risultò di ben sette punti. Stavolta però quasi ogni giorno via whatsapp sono circolati sondaggi per lo più drammatici per i candidati democratici, di dubbia paternità e apparentemente ‘sfuggiti’ dai corridoi della Rai. Tanto che Andrea Martella, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ha dovuto ricordare che la loro diffusione negli ultimi quindici giorni prima del voto è vietata dalla legge. E ieri sera l’istituto indicato come titolare della maggior parte, il Consorzio Opinio Italia, ha formalmente diffidato chi fa «circolare sondaggi, exit poll e proiezioni» con il proprio marchio «al di fuori dalle modalità esplicitamente autorizzate dalla legge».

Vigilia a palazzo Chigi

La posta in gioco, è alta per tutti. Anche per il presidente del Consiglio. Dopo il voto, nelle Camere e al governo si aprirà ufficialmente la partita dei progetti per il Recovery fund. Se la logica di questa maggioranza esclude non solo precipitazioni al voto ma cambi sulla plancia di comando (rimbalza la parola “rimpasto” che dovrebbe però essere chirurgico per non provocare scossoni), è altrettanto evidente che l’inedito tesoro in arrivo suscita apprensioni. Soprattutto appetiti. Giuseppe Conte, solitamente sovraesposto, stavolta ha fatto un passo indietro, dopo aver provato inutilmente a convincere i 5 stelle alle alleanze. Nessuna commistione di ruoli stavolta, il modello della “foto di Narni” (quella dell’ottobre 2019, scattata alla vigilia delle sfortunate elezioni regionali in Umbria, Zingaretti, Di Maio e Conte con il candidato Vincenzo Bianconi, poi sconfitto) a questo giro era impraticabile. Il premier è rimasto un passo indietro anche dalla campagna referendaria, a parte la scontata dichiarazione di voto per il Sì, per mettere al sicuro il suo governo. Perché così al sicuro non è.

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