Il 22 ottobre, a dieci giorni dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, il governo italiano ha bloccato una fornitura di tecnologia 5G dalla cinese Huawei a Fastweb con il "golden power”, cioè la facoltà di intervenire per ragioni di sicurezza nazionale in accordi tra privati quando si tratta delle reti di nuova generazione. Il dipartimento di Stato, ancora guidato dal trumpiano Mike Pompeo, ha applaudito la decisione e ha rilanciato: gli americani chiedono di escludere dalle reti di telecomunicazioni europee tutti i “fornitori inaffidabili”, tutti quelli che potrebbero essere utilizzati dal partito comunista cinese.

A settembre l’amministrazione Trump ha deciso di lanciare l’attacco, forse, definitivo a Huawei: ha vietato la vendita alla società cinese di semiconduttori che includono componenti fisiche o di software americane.

Le aziende giapponesi Sony, Kioxia e Renesas che nel 2019 fornivano a Huawei 14,4 miliardi di dollari di semiconduttori hanno sospeso le spedizioni, la società cinese potrebbe trovarsi priva delle componenti cruciali per i suoi prodotti a inizio 2021. 

Cosa (non) cambierà con Biden

Una volta alla Casa Bianca, Joe Biden cercherà di smorzare la guerra commerciale con la Cina, i dazi molto probabilmente scenderanno, ma almeno su un punto ci sarà piena continuità: la guerra a Huawei, una guerra che si combatte anche e soprattutto in Italia, l’unico grande paese occidentale ad aver aderito alla Nuova via della seta cinese (Belt and Road Initiative), cioè il programma di Pechino per estendere modellare la globalizzazione sulla base delle esigenze del regime comunista.

Il Covid ha rallentato gli investimenti e i progetti legati al passaggio dal 4G al 5G, ma nel 2021 l’attuale tregua verrà e l’Italia dovrà decidere quanto assecondare la crescente pressione americana, proprio mentre Huawei cerca di rassicurare e conservarsi uno spazio di azione nel settore che dovrebbe rappresentare il cuore dell’economia post Covid.

Nel 2021 inaugurerà a Roma un Transparency center per dimostrare a fornitori, clienti e potenziali partner quanto sono sicure le sue tecnologie, a settembre il ministro degli Esteri cinese Wang Yi è venuto in Europa, e a Roma ha incontrato l’omologo Luigi Di Maio, per prevenire la totale esclusione delle tecnologie cinesi dal 5G europeo. 

L’ostilità verso Huawei sta crescendo in Europa e con Biden alla presidenza sarà possibile schierarsi contro la Cina senza passare per sovranisti trumpiani. Le rassicurazioni di Huawei e i 4 miliardi di dollari che dice di aver investito in sicurezza non bastano a bilanciare i tanti elementi che invitano alla prudenza: dal 2016 una legge obbliga tutte le aziende cinesi «a supportare e fornire assistenza e cooperare al lavoro dell’intelligence nazionale».

Huawei ha spiegato più volte che questa legge non autorizza il governo a imporre alle aziende di installare backdoor, cioè accessi paralleli, che permettano ai servizi segreti cinesi di spiare le informazioni che passano dalle reti 5G Huawei. Informazioni che non riguardano solo - in prospettiva - gli smartphone, ma intere città, quando saranno maturi i progetti di smart cities come quelli che la società cinese sta testando in Sardegna. 

I timori dell’intelligence

Le agenzie di intelligence occidentali credono poco a questa rassicurazione, per tre ragioni. Primo: Huawei ha una struttura proprietaria opaca, formalmente gli azionisti sono i dipendenti raccolti in una associazione che però non ha veri poteri gestionali e quando in Cina non si capisce chi comanda in una azienda di solito è perché comanda il Partito comunista che vuole però non vuole apparire. Secondo: Huawei entra sul mercato a prezzi che sono di solito più bassi dei suoi concorrenti europei, Nokia ed Ericsson, una forma di concorrenza sleale - dicono i critici - che i cinesi si possono permettere perché non hanno obiettivi soltanto di business ma di spionaggio e perché dietro hanno lo stato. 

La terza ragione dell’ostilità dell’intelligence - e di una parte crescente della politica - verso il ricorso a Huawei per la tecnologia 5G deriva dal fatto che si tratta di prodotti molto complessi da gestire e pieni di vulnerabilita che potrebbero essere sfruttate da chi ha cattive intenzioni (il Partito comunista è il primo sospettato, ma non l’unico). Finite State, una società specializzata in sicurezza cibernetica, ha analizzato il firmware di 558 prodotti Huawei, cioè la parte di codice che fa funzionare il dispositivo fisico, in cerca di accessi laterali, falle nella sicurezza e altre caratteristiche che potessero essere sfruttate per accedere ai dati che transitano dalla rete. «Il risultato delle nostre analisi è che i prodotti Huawei  sono meno sicuri che quelli analoghi dei concorrenti», scrivono.

Il 29 per cento dei prodotti testati ha almeno uno username e una password impostati di default nel firmware, che consentono quindi l’accesso a meno che l’utente non li cambi (cosa che quasi nessuno fa e non è sempre facile). Altre caratteristiche permettono a chi possiede le apposite chiavi di accedere tramite backdoor, entrate posteriori.

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Le ambiguità dell’Italia 

Tutto questo prova che ci sia il Parito comunista all’opera? Secondo gli esperti della Gran Bretagna no. A settembre un il comitato per la cyber security che vigila proprio su Huawei ha presentato il suo rapporto al Consigliere per la sicurezza nazionale del Regno Unito e scrivere nelle conclusioni che «il comitato non è convinto che i difetti identificati siano il risultato di una interferenza dello stato cinese», ma i difetti nei prodotti Huawei ci sono e «generano vulnerabilità che possono essere sfruttati da un vasto spettro di attori».

Tanto basta agli Stati Uniti per chiedere di rompere ogni rapporto con l’azienda cinese. Anche il Copasir, il comitato parlamentare che vigila sui servizi segreti italiani, a dicembre scorso ha concluso che, oltre a «un innalzamento degli standard di sicurezza idonei per accedere all’implementazione di tali infrastrutture», è opportuno valutare la possibilità di «escludere le predette aziende dalla attività di fornitura di tecnologia per le reti 5G».

In realtà con un Dpcm finito al centro di alcune polemiche, ad agosto 2020 il governo Conte ha autorizzato Tim a usare tecnologia Huawei per il 5G ma ha imposto alla società italiana una lunga lista di obblighi per garantire la sicurezza.

La delega a Tim della protezione di quelli che i servizi di intelligence di mezzo mondo considerano minacce alla sicurezza nazionale non ha certo rassicurato chi teme l’avanzata di Huawei. Passata la fase di transizione da Trump a Biden, presto l’Italia si troverà di fronte a scelte drastiche, visto che gli Stati Uniti pretedono dai loro partner un distacco quasi completo dalle tecnologie di matrice cinese. 

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