Oscilla, ondeggia, bascula, beccheggia, per non affondare la linea di Giuseppe Conte cambia di nuovo. Martedì minaccia Matteo Renzi di non farlo rientrare mai più in maggioranza, mercoledì gli lancia un appello per ricostruire la maggioranza, oggi – messo spalle al muro dal parlamento – fa un nuovo testacoda: lunedì sarà alla Camera, martedì al Senato per le sue «comunicazioni».

Comunicazioni, non informative: dunque si vota. Conte si gioca tutto: una sconfitta potrebbe significare la fine della sua irresistibile ascesa politica. Ma è uno scapicollo: al momento, a palazzo Madama i voti non ci sono. Anche se nel pomeriggio spuntano «costruttori», per ora alla spicciolata. Un alto dirigente dem promette che l’«operazione responsabili» andrà «liscia».

Il Conte ter nascerà, senza Italia viva. Che all’opposizione completerà la parabola discendente. Ma siamo ancora allo stadio in cui le sicurezze si confondono con i desideri.

Colle di svolta

La svolta arriva, come il giorno prima, dopo che Conte va al Quirinale. Ma è una svolta in senso opposto a quella del giorno prima. Di mattina alla Camera si vota sul decreto Natale. La destra incrocia le braccia, chiede (e minaccia) lo stop ai lavori finché il premier non verrà in aula a parlamentarizzare la crisi. Le forze della maggioranza residua non possono fare resistenza: «La richiesta delle opposizioni è corretta», ammette il capogruppo di Leu Federico Fornaro. Pd, M5s e Leu si uniscono alla richiesta. È il primo atto dei giallorossi senza Italia viva.

La capigruppo si riunirà ma si riaggiornerà alla sera perché le dimissioni delle ministre renziane non sono ancora protocollate. Comunque non c’è dubbio su cosa dovrà decidere: la richiesta al premier di presentarsi alle camere. Ma ci torneremo, perché la capigruppo decide di più.

Intanto Conte gioca di anticipo. Torna al Colle e dimostra al presidente, molto severo con la tendenza al confronto muscolare, che Renzi in un giorno non ha dato segni di ripensamento.

Il comunicato ufficiale, a fine colloquio, informa della firma di Mattarella sulle dimissioni delle ministre e sull’interim dell’agricoltura assunto dal premier (quello alla famiglia è una delega, che viene semplicemente ritirata) ma anche della «volontà» del premier «di promuovere in parlamento l’indispensabile chiarimento politico mediante comunicazioni dinanzi alle camere». E qui torniamo alla capigruppo. Dove si consuma una battaglia. La presidente di palazzo Madama, Elisabetta Casellati, vorrebbe far votare prima al Senato, la Camera che traballa. Invece la spunta Montecitorio in base al principio dell’alternanza perché, spiegano i tecnici «l’ultima votazione fiduciaria si è svolta in Senato». Decisione tecnica ma non neutra: il governo arriverà al Senato dopo un primo sì.

Conte onora la promessa-minaccia fatta a Renzi il 30 dicembre, «ci vediamo in parlamento». Certo di avere la vittoria in tasca.

Nicola Zingaretti riunisce in videoconferenza l’ufficio politico, il caro vecchio «caminetto», dove per oltre tre ore tutti fanno quadrato intorno a Conte, escludono la possibilità di un governo con le destre, «impensabile qualsiasi collaborazione di governo con la destra italiana, sovranista e nazionalista. Sarebbe un segnale incomprensibile anche per le cancellerie europee». E soprattutto recitano il de profundis all’alleanza con Italia viva. «L’inaffidabilità politica di Iv», dice Zingaretti, «è un dato che non può essere cancellato dalle nostre analisi». Nel frattempo anche i Cinque stelle si riuniscono, lì i toni contro i renziani sono meno composti. Alla riunione Pd due ministri parlano fuori dai denti. Uno è Peppe Provenzano e guarda al futuro: «La scelta di Renzi è tutta politica. L’obiettivo è far saltare l’asse tra Pd, M5s e sinistra, l’unico che può, piaccia o meno, sconfiggere le destre». L’altro è Dario Franceschini, che di crisi e cambi di governo ha un indiscusso expertise, e infatti spiega come si deve procede: «Nel passato il termine responsabili indicava una negatività, non è più così», nel vecchio sistema bipolare c’era il «ribaltone», oggi «le maggioranze si cercano in parlamento alla luce del sole e senza vergognarsene».

I conti a volte tornano

Intanto il socialista Riccardo Nencini fa sapere di considerarsi un «costruttore», insomma si offre alla nuova maggioranza. Sarebbe un colpaccio perché grazie al suo simbolo, Psi, Renzi al Senato ha un gruppo, che a quel punto non avrebbe più. Ma dal Pd – e da palazzo Chigi – la linea è assicurare che i numeri ci sono a prescindere dai transfughi renziani: la maggioranza sarà messa in sicurezza senza di loro, e poi si procederà allo «scouting» in Italia viva. Comunque già si è segnalata la senatrice Donatella Conzatti. Dal Pd si parla di altri cinque pronti a seguirla. Gli sherpa fanno i conti: siamo a 155. Per la maggioranza qualificata, che servirà comunque per votare lo scostamento di bilancio, servono 161 voti. Ma c’è un requisito, ricordato anche dal Colle: per una nuova maggioranza serve un gruppo, un’area. Con una spicciolata di «raccogliticci» il Conte ter non può partire. Da ora a martedì si tratta a oltranza.

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