Il meno ostile di tutti è Enrico Letta, proprio il segretario che dai suoi «liberal» era accusato di essere troppo critico con Mario Draghi. Oggi invece tra i leader di maggioranza è il più possibilista sul trasloco di Draghi al Quirinale.

«La partita Colle e quella Chigi vanno insieme, la condizione è non indebolire Draghi», spiega in queste ore. Letta però è anche l’unico a non vedere il voto anticipato come una iattura; e per lui Draghi al Quirinale è l’unica opzione in cui il Pd non perderebbe.

In un parlamento in cui i numeri tirano a destra, in cui il centrosinistra giallorosso dovrà impegnarsi innanzitutto a non perdere pezzi, per lui il miglior risultato sarà non uscire sconfitto dalla partita del Colle.

Quello che vale per il segretario non vale per tutto il partito.  Anzi nel Pd siamo al paradosso che le schiere dei draghiani dem, quelli della corrente Base riformista che lo invocano persino come leader del centrosinistra per il 2023, sono i più scettici. Draghi, all’Auditorium Antonianum sotto il solenne bassorilievo di Gesù nel Tempio, ha assicurato che «è essenziale che la legislatura vada avanti fino al suo termine naturale».

Ma non ha convinto i parlamentari. Il totonomi per palazzo Chigi che ieri impazzava al Senato – Montecitorio è in vacanza – non rassicura: i ministri Daniele Franco, Vittorio Colao o Marta Cartabia hanno il polso per tenere insieme la maggioranza degli opposti? Circolano già boatos sulla Lega che, per prepararsi al voto, potrebbe abbandonare il governo.

I franchi nemici

Ma quello che vale per i draghiani del Pd vale per gli altri parlamentari di maggioranza. Che si confermano grandi estimatori del Draghi di governo, ma franchi nemici del Draghi di Quirinale. Una inimicizia espressa con i migliori complimenti verso il «migliore».

«Ha ragione Draghi, è un uomo al servizio delle istituzioni. Per questo deve restare dove sta», è la battuta che circola. I riflessi più pronti, come sempre, li ha avuti Matteo Renzi che ieri su Repubblica ha stoppato l’idea “draghiana” della maggioranza uguale anche per il Colle: «Il Quirinale fa storia a sé».

Il leader Iv è lo stesso di quando, un anno fa, fiutò l’aria della crisi del governo giallorosso e se ne mise alla testa. Oggi in parlamento l’aria non è favorevole all’elezione di Draghi. Non sono per il premier i Cinque stelle, né nella fazione guidata da Giuseppe Conte né nelle truppe comandate dal ministro Luigi Di Maio, che guarda alle mosse delle destre.

Le destre a loro volta a Villa Grande hanno stretto un giuramento di unità su un nome che sarà indicato «ai primi di gennaio». Difficilmente sarà Draghi: piace solo a Giorgia Meloni – sarebbe il miglior ticket per i tavoli europei per una premier orbaniana –, per gli altri finché non si trova un valido sostituto non se ne parla.

Renitente alla leva draghiana anche Art.1. Pier Luigi Bersani in questi giorni spiega: «Prima di cercare di fare l’inedito assoluto, o il semi-inedito, proviamo a essere normali». Tradotto dal bersanese: prima di eleggere presidente un premier, mai successo, e di chiedere a Sergio Mattarella di restare, successo una volta con Giorgio Napolitano, i partiti provino a verificare se c’è un nome su cui si trova un accordo.

Eppure può finire in forza dei fatti, quelli che hanno la testa dura. «Arriva la tempesta. Otto milioni di italiani hanno disdetto le vacanze, la ripresa economica rallenterà. Cambiare comandante della nave in questo momento non parrebbe intelligente», spiega per esempio Matteo Orfini (Pd). Una dottrina che già fa proseliti.

 paletti dunque per il Quirinale più che Draghi li metterà la variante Omicron. Ma Orfini spinge il discorso oltre, «se si torna in una situazione di emergenza come quella in cui Draghi è stato chiamato da Mattarella», allora «anche a Matterella arriverà la richiesta di un sacrificio», quello di restare anche lui al suo posto, il Quirinale.

© Riproduzione riservata