Con la prospettiva di un nuovo ministero per la transizione ecologica, la Francia è stata ripetutamente evocata nelle consultazioni, perché lì quella posizione esiste da quando Emmanuel Macron è presidente. La storia però vale sia come modello di ecologia di governo, sia da monito su come non bastino ambizione politica o un super-ministero a guida ambientalista per mettere in piedi una transizione efficace. La formula attuale del Ministère de la transition écologique è stata concepita come manifesto di intenzioni e strumento pratico per rendere la Francia leader nella lotta ai cambiamenti climatici, accorpando le funzioni governative che avessero un impatto sull’ambiente.

La sostanza istituzionale c’era: la ministra dell’ambiente francese è una delle più potenti dell’esecutivo. Ma il suo è stato definito anche «uno dei lavori più pericolosi di Francia», è stato l’epicentro di molte delle tensioni politiche degli anni Macron, uno dei luoghi della detonazione che ha causato la stagione dei gilet gialli, e contemporaneamente bersaglio di accuse di greenwashing e inazione politica.

La scrivania ha cambiato occupante quattro volte in quattro anni, in un incessante ciclo di stalli e ripartenze. Il primo è stato Nicolas Hulot, regista di documentari, ambientalista convinto e rispettato, protagonista degli accordi di Parigi, nemico del nucleare, a lungo corteggiato dalla politica prima di cedere a Macron. È durato un anno, si è dimesso in diretta radiofonica e in polemica contro il presidente. L’ultima è Barbara Pompili, una lunga storia di militanza nei Verdi prima della folgorazione per La République En Marche!.

Più di una fusione

Sovrapporre i sistemi di paesi diversi è difficile, ma se il modello è davvero la Francia, il ministère de la Transition écologique è più di una semplice fusione tra il nostro ministero dello Sviluppo economico e quello dell’Ambiente, perché non si occupa solo delle politiche energetiche, della tutela dell’ecosistema, della biodiversità. L’ambiguità e anche la confusione nella proposta grillina le possiamo già leggere nella differenza le parole di Vito Crimi (dopo le consultazioni aveva parlato di transizione energetica) e quelle di Beppe Grillo, che hanno dato la forma finale al quesito di Rousseau.

La differenza è sostanziale. Sotto l’ombrello delle competenze di un «super ministro dell’ambiente» alla francese ricadono anche prerogative che oggi sono del ministro dei Trasporti e delle infrastrutture. Inoltre, la struttura che oggi fa capo a Pompili si occupa delle politiche abitative, sia da un punto di vista sociale che energetico. E nella transizione ci sarebbe infine da includere alcune competenze del ministero dell’agricoltura. Trasporti, case e produzione di cibo sono tra le principali fonti di emissioni e non esiste transizione ecologica che possa non toccarle: non si tratta solo di convertire la produzione di energia, ma di accompagnare tutto il settore produttivo, gli stili di vita, i comportamenti dei cittadini.

Finora le competenze ambientali più importanti in Italia si sono trovate a cavallo dei ministeri, che si trattasse di mobilità, efficienza energetica, adattamento climatico. Ognuna era spacchettata per tronconi gestiti con logiche diverse. «Il problema dei ministeri», dice Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, «è che ragionano a compartimenti stagni, il che ha portato a una visione burocratica delle cose». È uno dei motivi dell’impasse italiana sul tema e dell'indebolimento nelle prerogative del ministero dell’ambiente. «Il suo compito», spiega Zanchini, «è stato spesso residuale, cioè portare contenuti e paletti a decisioni prese altrove».

Il raggio d’azione era istituzionalmente limitato. «Un ministero dell’ambiente classico ha il compito di proteggere l’ambiente dallo sviluppo, ma oggi non c’è sviluppo senza sostenibilità. Serve una rivoluzione di pensiero e un ministero della transizione può essere una buona idea», ragiona Valentino Piana, uno dei negoziatori degli accordi di Parigi. Ci sarebbero però anche gli svantaggi di un superministero. Il primo, come spiega Legambiente, è che rischiano di passare in secondo piano alcune delle funzioni classiche di un ministero dell’Ambiente: difesa del territorio, delle acque, della biodiversità. La seconda riguarda i tempi, che sono brevi, per scrivere il Recovery plan, portare idee al G20 a presidenza italiana, organizzare la Cop26. Ma la creazione di un nuovo ministero non si porta a termine in un mese.

Non solo serve una legge, bisogna spostare competenze, dossier, persone. Chi è familiare con le procedure ministeriali calcola che potrebbe volerci più di un anno per avere una struttura pienamente operativa. Per fare un esempio, con il primo governo Conte la competenza del turismo andò sotto le Politiche agricole. Il passaggio fu macchinoso, quando è caduto quel governo non era stato ancora completato. A quel punto è stato facile riportarlo sotto i Beni culturali, perché in buona parte era ancora lì.

Costituzione

A guardare le politiche ambientali della Francia c’è un ultimo aspetto interessante. Tra le dieci proposte bandiera di Grillo c’era quella di scrivere lo sviluppo sostenibile in Costituzione. In Italia erano state anche raccolte firme per una proposta di legge di iniziativa popolare, ma il tema non è mai arrivato a una vera discussione politica. In Francia è parte della visione di Macron ed è anzi il tema sul quale rischia di giocarsi parte del suo futuro politico, attraverso un complicato referendum. L’idea nasce all’interno di un’iniziativa che potrebbe finire nei radar dei Cinque stelle: un inedito e complicato esperimento di democrazia diretta.

La Convenzione dei cittadini sul clima è composta da 150 cittadini scelti col criterio di essere il più possibile rappresentativi della società francese. Sono stati seguiti per un anno da un gruppo di esperti, hanno incontrato Macron tre volte (con accesi dibattiti) e consegnato infine la richiesta di inserire la lotta ai cambiamenti climatici in Costituzione più 150 proposte di ogni tipo. Di queste, il 30 per cento circa è entrato nel disegno di legge finale arrivato in Consiglio dei ministri il 10 febbraio, che ha scontentato tutti, l’opposizione, gli ambientalisti e molti dei partecipati alla Convenzione.

Sullo sfondo c’è l’umiliazione arrivata per via giudiziaria. Un tribunale amministrativo ha condannato lo Stato per non aver fatto abbastanza sui cambiamenti climatici. La causa era stata intentata da quattro ong, ha portato al risarcimento simbolico di un euro ma è uno smacco politico e il precedente che apre le porte a possibili ulteriori cause da parte dei cittadini. Una delle ong è quella che porta il nome di Nicolas Hulot, di cui è ancora presidente onorario. Hulot ha cominciato la sua strada da ministro per la transizione ecologica e l’ha chiusa facendo causa allo stato per danni ambientali.

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