Perso tra le nebbie delle promesse disattese, flat tax in testa, è tornato sul proscenio un evergreen della destra al governo: il taglio delle tasse al ceto medio. Giorgia Meloni ha tirato a lucido un impegno, non rispettato nei fatti nell’ultima legge di Bilancio.

Per un motivo semplice: mancavano le risorse. È stata un’ossessione per Forza Italia, con in testa il vicepremier Antonio Tajani, che chiedeva di lanciare un segnale, magari portando l’aliquota dal 35 al 34 per cento, invece della sforbiciata di due punti ipotizzata in un primo momento.

Il dilemma delle risorse non è risolto. A certificarlo, in maniera indiretta, è il rapporto annuale dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb): «La manovra 2025 approvata alla fine dello scorso anno ha utilizzato quasi integralmente gli spazi di bilancio disponibili».

Quindi, osserva l’Upb, «a meno di miglioramenti della dinamica della spesa netta, eventuali nuovi interventi dovranno trovare copertura attraverso aumenti di entrate o riduzioni di spese strutturali». Escludendo che un taglio delle tasse possa essere finanziato con un aumento delle tasse, restano tagli ai servizi. Che dovranno essere nell’ordine dei 4-5 miliardi di euro.

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha fatto professione di ottimismo: «La credibilità crea le condizioni per il taglio delle tasse», lasciando intendere che entro l’anno è possibile soddisfare anche la richiesta del leader del suo partito, Matteo Salvini, sull’ennesimo condono: la rottamazione delle cartelle. «I tempi ci sono», ha detto Giorgetti. Bisogna capire dove siano anche i soldi per farlo. Perché per finanziare questa sanatoria servono risorse.

Intanto, si è perso il conto delle rottamazioni, piccole o grandi che siano. Il condono come stile di governo. Salvini, al termine del Consiglio federale leghista, ha comunque ribadito il progetto: «Vogliamo approvare la norma (sulla rottamazione, ndr) entro l’estate in commissione, e averla operativa da inizio 2026». Il condono più condono di tutti.

Tradimento fiscale

Grande è il caos sotto il cielo del fisco negli anni della destra. Il paradigma è il decreto Acconti, che ha dovuto sanare un pasticcio: l’esecutivo voleva favorire la riduzione delle tasse per i ceti più deboli e al contrario ha prodotto l’effetto contrario per un disallineamento con una riforma del 2023. La toppa è stata messa, scongiurando il versamento di acconti più alti per i contribuenti. Ma la figuraccia è rimasta.

Agli atti, a più di due anni dopo l’insediamento, il governo ha prodotto solo una lunga serie di promesse disattese. Il viceministro, il meloniano Maurizio Leo, è iperattivo nella stesura di decreti attuativi della riforma fiscale. Solo che sono stati micro-interventi.

«Il governo ha fatto una riforma fiscale con interventi episodici che interessavano gruppi specifici. Manca una visione organica e un progetto strutturato», spiega a Domani Maria Cecilia Guerra, ex sottosegretaria all’Economia e ora deputata del Pd.

All’appello manca la sostanza per cui Meloni e i suoi alleati hanno chiesto il voto agli italiani. Su tutte sventola la bandiera, bianca, della flat tax. A oggi è prevista solo per i lavoratori autonomi fino alla soglia degli 85mila euro. Nemmeno Salvini sembra crederci davvero. E non tutti gli impegni disattesi vengono per nuocere. «La questione non è il mantenimento delle promesse fatte, ma i contenuti sbagliati», aggiunge Guerra.

E non si scorgono misure per favorire il potere d’acquisto. Ancora una volta la relazione dell’Upb lancia l’allarme: «I salari reali sono diminuiti negli ultimi anni».Il governo Meloni sta assistendo impassibile a un fenomeno pericoloso: il «riassorbimento dell’occupazione in settori a bassa produttività e bassa remunerazione», annota l’Upb.

È vero che aumentano i posti di lavoro, come ripete a reti unificate la propaganda governativa, ma a fronte di compensi inadeguati.

Taglio boomerang

Per il rafforzamento delle buste paga resta solo il taglio del cuneo fiscale, l’unica misura di impatto varata dal governo Meloni. Ma a conti fatti, come riporta l’Ufficio parlamentare di bilancio, il meccanismo è a rischio boomerang alimentando il fiscal drag (tasse più alte con aumento dell’inflazione a parità di salario): «Il maggiore prelievo da drenaggio fiscale associato a 2 punti percentuali di inflazione è più alto di circa 370 milioni (+13 per cento). L’intensificazione del drenaggio fiscale è concentrata sui lavoratori dipendenti».

E che dire delle famiglie? Nulla di concreto, salvo la riesumazione del vecchio bonus bebè.

Tra tutte le promesse mancate, ecco così palesarsi il ritorno della riduzione delle tasse al ceto medio. E pazienza se i benefici rischiano di essere minimi: secondo alcune proiezioni, tra la fascia di reddito compresa tra 40mila e 50mila euro, il risparmio potrebbe essere inferiore ai 40 euro lordi al mese. Poco più di una mancia.

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