Il 2 giugno è alle porte. Settantanove anni fa nasceva la Repubblica italiana, «fondata sul lavoro» e «che ripudia la guerra». La ricorrenza quest’anno cade in un momento cupo, spazzato da venti di guerra, ma proprio per questo sarebbe un’ottima occasione per dare un segnale forte, a tutti, di cosa dovrebbe essere questo paese.
Il 2 giugno è il rituale più importante quello dove la Repubblica celebra sé stessa. I rituali di rappresentazione sono uno degli elementi fondanti di qualsiasi società, delle piccole comunità di villaggio come dei moderni stati-nazione, in questo caso con i loro inni nazionali, le bandiere, le parate militari, che mettono in scena, visivamente, l’apparato governativo. Infatti, è questo lo scopo del rituale: “mettere in scena”, nel senso teatrale del termine, rappresentare la struttura ufficiale di una società.
Militari e operai
Come ci ha brillantemente spiegato Benedict Anderson, le comunità sono in gran parte immaginate, e la nazione più di altre, ma tutte hanno bisogno, in qualche momento, di essere reificate, per essere visualizzate e percepite nella loro esistenza reale. Il rituale mette in scena un apparato simbolico, che agisce sulla base di astrazioni, che vanno, appunto, intuite, più che ricercate razionalmente.
Da sempre in questa occasione a sfilare sono i militari. Come a dire che uno stato serve essenzialmente a fare la guerra. Ripudiare la guerra non significa rinunciare ad avere un esercito, però un conto è prevedere un corpo di difesa, un altro è celebrarne la centralità repubblicana, come si può evincere dalla manifestazione del 2 giugno.
Una centralità e una dichiarazione di superiorità rispetto alle altre categorie: la morte di un militare viene celebrata con inni, bandiere e tutti gli onori, alla presenza di qualche carica dello stato. Se muore un operaio, no. Eppure, è anche fondata sul lavoro la nostra Repubblica.
Un paese cresciuto con la pace
I rituali, per entrare a far parte della percezione collettiva, necessitano di canoni regolari, devono essere codificati, presentare una certa ripetitività che ne affermi la permanenza e la costanza nel tempo. Per dirla con Claude Lévi-Strauss, il rituale ha sempre in sé «un aspetto maniacale e disperato» e proprio a causa di questa ripetitività che ne caratterizza le procedure, il rituale, nutre l’illusione che sia possibile ripercorrere a ritroso un mito, ristabilire il continuum, a partire dalle discontinuità. Un’illusione dunque, ma allora perché non provare a illuderci in modo diverso?
Perché per mettere in scena chi siamo davvero non facciamo sfilare quei medici e infermieri che solo qualche hanno fa hanno salvato molti di noi, che chiamavamo «angeli», «eroi», senza poi nemmeno riconoscere loro un salario dignitoso; perché non facciamo sfilare gli insegnanti, che ogni giorno si battono per tenere in piedi una scuola che tutti cercano di demolire e che nonostante tutto riescono a dare una buona educazione ai nostri figli; perché non gli operai e le operaie che lottano per il posto di lavoro; i giovani che cercano un futuro, trovando sempre meno appigli a cui aggrapparsi, i contadini, gli artigiani.
L’Italia è fatta dalla gente che la tiene in vita, non solo dai militari e proprio perché vorremmo distinguerci dai tanti, troppi, che invocano un riarmo globale, facciamo sfilare i militari, sì, anche loro, ma disarmati. Con la bandiera della pace.
La troppa ufficialità relega la commemorazione a un affare di stato e la presenza di soli corpi militari non avvicina certo quello stato alla gente. Non dimentico che questa Repubblica è nata da una guerra e da una coraggiosa resistenza, ma il paese è cresciuto con la pace e il lavoro di molti. Facciamoli partecipare a questa festa e forse, in molti, saremmo meno diffidenti nei confronti dello stato.
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