Le sollecitazioni che hanno generato il trumpismo negli Stati Uniti sono presenti in molti paesi del mondo, compresa l’Italia. Il bisogno di un leader forte disposto a infrangere le regole. Il comandante in capo che non usa il politichese, che non si fa imbrigliare nei giochini di palazzo, che sa dire le cose in modo chiaro e s’impone al mondo per la sua capacità di gonfiare il petto e battere il pugno sul tavolo, piace a quasi metà del Paese (48 per cento).

È particolarmente apprezzato dai residenti a Nordest (50 per cento), dalle persone che si autocollocano nei ceti popolari (61 per cento) e di quella parte del ceto medio in difficoltà, che si sente declassato e in caduta libera (51 per cento).

Solo nella middle class metropolitano-aspirazionale il profilo del leader che rompe gli schemi non risulta vincente e predominante. In questo segmento il malessere provato nei confronti delle istituzioni e delle prassi democratiche non sono maggioritarie (sono 9 punti in meno rispetto alla media nazionale e 22 punti in meno rispetto alle pulsioni presenti nei ceti popolari), ma anche qui il germe si è fatto strada da tempo e, nonostante i dati più calmierati, il 39 per cento del ceto medio tranquillo economicamente è attratto dalle sirene e dalle narrazioni di stampo trumpista.

Il fulcro della delegittimazione si concentra sul parlamento e trae origine da una profonda avversione verso le élite. L’84 per cento degli italiani ritiene che lo scontro tra popolo ed élite sia destinato a lievitare nei prossimi anni.

 Il 76 per cento dell’opinione pubblica si sente gli esperti lontani e incapaci di comprendere i bisogni e le esigenze delle persone comuni.

La stanchezza per le inefficienze, le lentezze e i burocratismi del sistema politico-partitico nazionale, così come il susseguirsi, nel corso dei decenni, di fenomeni corruttivi hanno generato quell’humus fertile che ha agevolato l’insediarsi di narrazioni de-sacralizzanti del Parlamento e del processo democratico.

L’Italia, come gran parte dei sistemi occidentali, vive una fase di profondo affaticamento del sistema democratico. 

Dobbiamo pensare alla democrazia, sostiene il saggista Pankaj Mishra, come a una «condizione sociale ed emotiva profondamente inquieta che è diventata universalmente instabile».

Questa dinamica, per quanto riguarda il nostro Paese, si sta articolando lungo due dimensioni parallele e socialmente caratterizzate lungo l’asse che separa i ceti popolari dal ceto medio. La prima è quella che coinvolge l’istituzione fulcro della democrazia. Il 48 per cento degli italiani giudica il Parlamento superato. Ne sono convinti il 50 per cento dei baby boomers (le persone nate tra il 1946 e il 1964), il 52 per cento dei residenti nelle regioni del Nordest e il 56 per cento delle persone che si autocollocano tra i ceti popolari. Il 36 per cento dell’opinione pubblica, inoltre, ritiene l’istituzione parlamentare un freno nella soluzione dei problemi del Paese e auspica una riforma che dia più forza e poteri al governo e, soprattutto, al suo leader.

A essere convinti di questa soluzione, in questo caso, sono innanzitutto i giovani (39 per cento), i baby boomers (42 per cento) e i residenti nelle regioni del Sud (42 per cento).

La seconda dimensione del processo di affaticamento del sistema democratico riguarda il superamento, in alcune fasce della popolazione, del tema della democrazia diretta.

Per affrontare le difficoltà del Paese, il 33 per cento dell’opinione pubblica ritiene indispensabile ricorrere a forme di protesta decisa e forte.

Disposti a salire sulle barricate, a realizzare proteste clamorose sono, soprattutto, il 43 per cento delle persone che fanno parte dei ceti popolari, il 37 per cento dei residenti al Sud e sempre il 37 per cento dei giovani under 30 anni.

Nel ceto medio, sotto i colpi delle crisi e della pandemia, non mancano quote di persone (28 per cento) che vedono bene proteste radicali ed esemplari.

L’Italia che si affaccia al 2021 è un paese inquieto, in parte rabbioso, fiaccato da anni di rinunce, segnato dal convergere di diverse forme di disagio verso la democrazia.

Da un lato abbiamo il distacco dei ceti popolari e marginali, traditi dal modello democratico nella loro speranza di ascesa e benessere. Dall’altro lato, abbiamo il ceto medio, indebolito nei suoi sogni di benessere e nelle sue attese di ruolo e partecipazione al potere, in cui albergano ampie quote di persone deluse, infragilite, spaventate dai cambiamenti e rabbiose verso un Paese e un sistema politico da cui si sentono traditi.

La spinta e le pulsioni trumpiste non sono solo il frutto delle contraddizioni economiche e sociali degli ultimi anni (da ultimo le contraddizioni aperte dal Covid), ma sono anche il risultato dell’insediarsi, nella narrazione sociale, della sensazione che il nostro sistema si è trasformato da una Repubblica in cui la sovranità appartiene al popolo, a una democrazia delle élite.

  Il disagio verso il sistema democratico, l’insofferenza e le forme di de-sacralizzazione verso le istituzioni, sono anche il portato di trent’anni di liberismo sfrenato, di picconature sullo Stato e sul suo ruolo, di vuoto e assenza nelle politiche di coesione sociale e civica, di assenza di fini collettivi.

Sono il risultato dell’abbandono, da parte dell’universo politico, di uno spirito costituente, di un perimetro di comunanza di destino, entro cui collocare i tratti complessivi e condivisi dell’evolversi sociale ed economico della nazione.

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