Sono state depositate le sentenze (n. 14 e n. 15) con le quali la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità, sollevate dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana e da diversi tribunali, riguardo all’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-Cov-2 imposto al personale sanitario.

Danni da vaccino

Una delle questioni proposte dai giudici siciliani riguardava il fatto che «il numero di eventi avversi, la inadeguatezza della farmacovigilanza passiva e attiva» e altri fattori potevano mettere a rischio la salute di chi si sottoponesse al vaccino, inficiando così la legittimità dell’obbligo stesso.

In continuità con la propria giurisprudenza in materia di trattamenti sanitari obbligatori – la pronuncia richiama molte sentenze precedenti – la Corte ha ribadito che l’articolo 32 della Costituzione affida al legislatore il compito di bilanciare, alla luce del principio di solidarietà, il diritto dell'individuo all’autodeterminazione sanitaria con il coesistente diritto alla salute degli altri e, quindi, con l’interesse della collettività.

«La dimensione individuale e quella collettiva entrano in conflitto» - precisano i giudici - poiché il «rischio di evento avverso anche grave» a seguito della somministrazione di un vaccino non sempre è evitabile. Il legislatore si trova, pertanto, di fronte a una delle «scelte tragiche» del diritto.

Nel conflitto fra le due dimensioni, alla Corte spetta valutare se il legislatore abbia esercitato la propria discrezionalità nel rispetto dei princìpi costituzionali, e ciò dev’essere fatto sulla base della «concreta situazione sanitaria ed epidemiologica in atto», nonché «delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica».

Al riguardo, la Consulta ha ritenuto che il legislatore abbia tenuto conto dei dati forniti dalle autorità scientifiche, nonché modulato la disciplina relativa alla gestione della pandemia in base all’evoluzione della situazione sanitaria, all’andamento dei contagi e alle conoscenze mediche. Quindi, secondo i giudici, la scelta dell’obbligo vaccinale anti-Covid per i sanitari non è né irragionevole né sproporzionata. Peraltro, esso è stato imposto pure in altri Paesi europei.

La non irragionevolezza si fonda anche sulla circostanza che tale obbligo ha consentito di perseguire, oltre alla tutela della salute degli appartenenti a una delle categorie più esposte al contagio, «il duplice scopo di proteggere quanti entrano con loro in contatto e di evitare l’interruzione di servizi essenziali per la collettività». Quest’ultima finalità – continua la Corte - «era particolarmente avvertita in un momento in cui (…) il sistema sanitario nel suo complesso era sottoposto ad un gravissimo stress».

La Corte ha così ritenuto di superare alcune delle critiche mosse all’obbligo di vaccino, relative al fatto che esso non impedisce del tutto la trasmissione dell’infezione, ma si limita a ridurne il rischio e ad attenuarne i sintomi. In altri termini, secondo i giudici, la salute collettiva sarebbe garantita dal vaccino in termini non tanto di barriera al contagio, cioè in via diretta, quanto di attenuazione della pressione sulle strutture sanitarie, quindi in via indiretta.

Consenso informato

Il Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia aveva anche sollevato la questione di legittimità costituzionale riguardo all’onere di sottoscrizione del consenso informato, ravvisando un’incongruenza rispetto all’obbligo di vaccinazione.

Al riguardo, la Corte ha affermato che «l’obbligatorietà del vaccino lascia comunque al singolo la possibilità di scegliere se adempiere o sottrarsi all’obbligo». «Il consenso, pur a fronte dell’obbligo, è rivolto, (…) nel rispetto dell’intangibilità della persona, ad autorizzare la materiale inoculazione del vaccino».

La motivazione appare scarna, nonché poco convincente. Sarebbe stato forse più opportuno precisare che, nel caso di vaccini obbligatori, il consenso informato serve soprattutto a far sì che la scelta di rispettare l’adempimento avvenga in modo realmente consapevole circa gli eventuali rischi.

Tamponi o vaccino

La sentenza n. 15 concerne due ulteriori questioni di legittimità costituzionale, sollevate dai tribunali ordinari di Brescia, di Catania e di Padova.

La prima è relativa alla scelta legislativa dell’obbligo vaccinale, anziché di quello di tampone. Secondo la Corte, tale scelta non ha costituito una soluzione irragionevole o sproporzionata rispetto ai dati scientifici disponibili.

È vero che la soluzione dei tamponi è stata utilizzata in via generica, ad esempio, per l’accesso ai luoghi pubblici, hanno affermato i giudici. Tuttavia, «nel caso degli operatori sanitari, tale soluzione sarebbe stata del tutto inidonea a prevenire la malattia (specie grave) degli stessi operatori», con il conseguente rischio di compromettere il funzionamento delle strutture ospedaliere. E ciò, come visto riguardo alla sentenza precedente, avrebbe nuociuto alla collettività.

Inoltre, «l’effettuazione periodica di test antigenici con una cadenza particolarmente ravvicinata (e cioè ogni due o tre giorni) avrebbe avuto costi insostenibili e avrebbe comportato uno sforzo difficilmente tollerabile per il sistema sanitario, già impegnato nella gestione della pandemia».

Sospensione della retribuzione

La seconda questione riguarda la sospensione della retribuzione e di ogni altro compenso o emolumento, come conseguenza della sospensione della prestazione lavorativa, per chi avesse scelto di non sottoporsi alla vaccinazione. Il riferimento, oltre che allo stipendio, è all’«assegno a carico del datore di lavoro», cioè del cosiddetto assegno alimentare «in misura non superiore alla metà dello stipendio», previsto per i lavoratori sospesi (Testo unico sullo statuto degli impiegati civili dello Stato, D.P.R. n. 3/1957).

Secondo la Corte, tale scelta del legislatore non appare irragionevole. La vaccinazione anti-Covid, infatti, è stata «elevata dalla legge a requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati», «in sintonia» con la normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

«Il lavoratore che decide di sottrarsi unilateralmente alle condizioni di sicurezza» – hanno precisato i giudici – si trova in una condizione diversa da quella del lavoratore sospeso dal servizio a seguito di procedimento penale o disciplinare, cui invece l’assegno alimentare continua a spettare: chi non si è vaccinato avrebbe potuto porre fine alla sospensione mediante l’atto del vaccinarsi.

Pertanto, la Corte ha escluso fosse soluzione costituzionalmente obbligata l’accollo al datore di lavoro dell’erogazione dell’assegno alimentare in favore del lavoratore che, non vaccinandosi, si rendesse volontariamente inidoneo allo svolgimento della propria attività.

L’affermazione risulta poco convincente: anche nel caso di procedimento penale o disciplinare le condotte che l’hanno determinato sono ascrivibili alla volontà del lavoratore, che la legge reputa comunque “meritevole” di tale assegno.

Le considerazioni della Corte non fugano i dubbi che avevamo sollevato su queste pagine circa il fatto che precludere a lavoratori non vaccinati ogni forma di sostentamento per far fronte a bisogni primari avrebbe potuto violare «i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Limiti che definiscono il concetto di “dignità” e che, secondo la Costituzione, non possono essere violati «in nessun caso» (art. 32).

Reputare che la salute possa prevalere sul diritto al lavoro e al sostentamento fino ad annullarlo pare contrastare con quanto affermato dalla stessa Corte nel 2013 (sentenza n. 85), e cioè che nessun diritto è “tiranno” rispetto ad altri, per cui è doveroso un bilanciamento secondo criteri di proporzionalità, necessarietà e adeguatezza.

In conclusione, resta il dubbio che la situazione emergenziale, e quindi l’eccezionalità del contesto, potesse determinare la compressione di diritti ritenuti intangibili fino a quel momento.

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