«Se ci saranno altri arrivi? Posso dire che non è finita qui per noi e neanche per il Pd». Matteo Renzi convoca una conferenza stampa al Senato per dare il benvenuto al senatore Enrico Borghi, uomo di peso del Pd, componente del Copasir, che ha annunciato l’addio alla casa madre e l’iscrizione a Italia viva in un’intervista a Repubblica.

Una mossa tenuta coperta fino alla mattina, che ha colto di sorpresa e fatto saltare i nervi a Marco Meloni, suo capo nella nuova corrente lettiana degli ulivisti. Non ne sapeva nulla. E non ne sapeva nulla neanche Lorenzo Guerini, presidente del Copasir e leader della corrente Base riformista, in cui anni fa Borghi pure ha militato.

Renzi non trattiene la gioia per la mossa andata in buca proprio nel momento in cui il Terzo Polo è esploso – ma ci sono già segnali di pentimento da parte del leader di Azione – e il declino di Italia viva viene dato per segnato. Non ha intenzione di disarmare: leggasi lo statuto del partito, pubblicato il 19 aprile in Gazzetta ufficiale e “pizzicato” da Domani, che conferisce tutto il potere dell’organizzazione nelle sue mani.

Dunque rilancia. E lascia intendere che l’arrivo di Borghi è il primo di una serie: «Il Pd ha fatto una scelta. Ora il dilemma di Elly (Schlein, ndr) è: o resta fedele al mandato delle primarie, e allora sposta il Pd su posizioni massimaliste, o non lo fa e perde la sua identità». Carte coperte, sempreché non sia un bluff.

Certo è che dopo l’addio del senatore dem, le chat del Pd si intasano di disorientamento e dubbi sulla segretaria, accusata di sottovalutare i malumori dei centristi e dei cattolici democratici. In particolare la chat degli europarlamentari: perché la prossima defezione potrebbe arrivare da Bruxelles.

Caterina Chinnici, già sconfitta alle regionali siciliane, potrebbe lasciare il gruppo Pd per andare in quello dei popolari via Forza Italia. Circola voce che già a maggio, forse il 9, Renzi lancerà un nuovo contenitore europeo.

Con la benedizione di Renew Europe: fonti macroniane spiegano il riferimento italiano è Italia viva, non certo Azione. Così Renzi ora prova a erodere i dem. Con l’obiettivo, dopo l’addio di Andrea Marcucci, di portare via eletti, uno alla volta, come una goccia cinese.

Avviso a Calenda

Ma l’avviso vale anche per Calenda. Con il nuovo acquisto, i renziani del Senato sono sei, abbastanza per fare un gruppo autonomo. Intenzione che la capogruppo Raffaella Paita smentisce, ma non troppo: «Sono stata alla guida del gruppo per sei mesi e non ci sono state questioni politiche che hanno diviso Italia viva da Azione.

La rottura è stata unilaterale. L’arrivo di Enrico dimostra che c’è la possibilità di una casa riformista più ampia. Lavoreremo per irrobustire un lavoro comune con Azione e ben venga se Azione vuole continuare a far parte del gruppo».

Benvenga, dunque. La reazione di Carlo Calenda arriva da Palermo ed è fredda: «I gruppi sono aperti a persone perbene, come è Borghi, che vogliano venire. Noi non cerchiamo nessuno». Proprio ora che aveva fatto ammenda per aver tenuto un atteggiamento troppo conflittuale con Iv, Iv gli fa un’altra sorpresa.

Renzi fa un passo di più di Paita: «Non abbiamo rotto sulla federazione» e cioè quando Calenda gli ha detto no, «non abbiamo rotto sul partito unico, non rompiamo sui gruppi. Porte spalancate, non siamo quelli dei veti ma quelli dei voti», affermazione quest’ultima un po’ eccessiva rispetto ai dati di realtà.

Vuole costruire «un contenitore», qualcosa che assomigli a una federazione, che metta insieme aree, «quella liberaldemocratica con Marcucci, il cattolicesimo democratico, un pezzo del mondo socialista. Anche Federico Pizzarotti ha detto una cosa interessante».

L’idea, esposta anche a qualche collega Pd, è rifare una Margherita 4.0. Sperando di convincere i centristi del Pd e per primi i popolari, che proprio ieri sono stati riuniti da Pier Luigi Castagnetti. Per essere credibile però deve cancellare il sospetto di essere pronto a fare la stampella alla destra di governo. Non gli costa molto garantire che il posizionamento sarà «no ai sovranisti, no ai populisti».

Cattolici in ebollizione

L’addio di Borghi scatena un subbuglio nel Pd. Per le sue argomentazioni severe: il senatore parla di una «mutazione genetica», dell’incapacità della segretaria a parlare all’elettorato di centro che fatalmente la porta a favorire la «merkelizzazione di Giorgia Meloni».

Giura di non aver fatto proselitismo fra i suoi ex compagni: «La mia scelta arriva dalla preoccupazione che è di tanti elettori e militanti per la trasformazione del Pd, che è un’operazione politica, che Schlein ha il dovere di finalizzare. Ho parlato di un’esigenza di sintesi tra le culture nel Pd, ho posto un disagio che esiste, non tanto del cattolicesimo democratico, ma oggettivamente in quella che era la Margherita dove si sono registrate delle preoccupazioni». Ma non ha ricevuto risposte. E «i silenzi contano».

Ma poi affonda sui riformisti che restano: «Io non ho la concezione che extra ecclesiam nulla salus che hanno altri. Chi fa politica non fa testimonianza». Un segnale diretto a Guerini e a Base riformista. Ancora più esplicito quando spiega di essere stato colpito dal fatto che la nuova segreteria «non ha un responsabile del comparto sicurezza e difesa.

Ma i fatti hanno la testa dura e si imporranno presto. Il tema dello sviluppo dell’industria militare in Europa è un tema principale». Critica anche l’appoggio che Stefano Bonaccini, di cui è stato sostenitore, ha dato a Schlein in cambio di poco: «Se avessi trattato io, avrei trattato diversamente, se uno parte con il 53 per cento degli iscritti, una certa forza ce l’ha».

Nel Pd le critiche si sprecano. Meloni è inferocito, parla di «un gesto di gravità inaudita», di lettura di Schlein simile «alla caricatura che ne fanno gli ambienti di destra».

Più composta, ma anche più pesante, la reazione di Guerini: «Rispetto la scelta di Enrico Borghi ma non la condivido. Sono sempre stato contrario all’idea di risolvere i problemi politici con le scissioni e infatti in passato mi sono sempre impegnato per evitarle. Non bisogna drammatizzare l’uscita di Borghi, ma neanche va derubricata o liquidata con un’alzata di spalle». Che è invece l’atteggiamento imputato da molti alla segretaria.

Intanto Renzi di gode il colpaccio e avverte che ha tutta una legislatura davanti per lavorare al suo nuovo contenitore: «Da qui al 2027 facciamo politica, non possiamo dire chi sarà il prossimo, ma possiamo dire che Borghi non sarà l’ultimo».

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