«Oggi, tra quelle possibili, dobbiamo scegliere la strategia che limiti di meno la nostra socialità, la libertà di movimento e le attività economiche. L’introduzione del green pass ha un impatto sulle strutture coinvolte, ma l’alternativa è tornare in autunno alla didattica a distanza o alle chiusure delle attività economiche». Il ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) in queste ore è alle prese con un dialogo difficile con i sindacati della scuola, che vedono nelle sanzioni per l’obbligo del pass una scelta troppo punitiva per i lavoratori, anche rispetto al comparto della sanità. «È un prezzo che non possiamo pagare. Il dialogo, il confronto, l’aggiustamento progressivo dei provvedimenti è l’unica strada».

Ministro, Laila El Harim è morta incastrata in una fustellatrice a Camposanto, nel modenese. In media tre morti al giorno sul lavoro. Dopo la morte di Luana D’Orazio, a maggio, lei aveva annunciato molti provvedimenti. Non hanno funzionato?

La morte sul lavoro è una piaga, ma non si cura in poche settimane e con l’iniziativa di un solo ministro. All’Ispettorato del Lavoro abbiamo nominato il più bravo (Bruno Giordano, ndr), abbiamo rafforzato l’organico, più di 2mila assunti, di cui oltre 800 entro fine anno. Nell’edilizia abbiamo introdotto l’obbligo di dichiarare con quante persone si realizza un’opera secondo tabelle stabilite dalle parti sociali al fine di ottenere l’attestazione di congruità, un deterrente al lavoro nero. Lavoriamo alla «qualificazione delle imprese», per capire come possano essere incentivate al rispetto delle regole. Ora bisogna sanzionare in modo “storico”, mi passi il termine, le imprese che violano le regole. La definizione “patente a punti” può fuorviare, ma serve un curriculum che tracci la storia dell’impresa sul rispetto delle regole. E che abbia conseguenze sull’accesso ai finanziamenti e la partecipazione alle gare. Lavoriamo a campagne informative, perché il tema deve essere presente tutti i giorni. Però c’è anche un modo di raccontare queste vicende che non aiuta. Quando un’azienda disinnesca i sistemi di sicurezza, la discussione verte solo sui controlli. Giusto, intendiamoci, ma c’è anche la responsabilità sociale dell’impresa che si può orientare solo con una forte esecrazione sociale. E con un intervento sulla responsabilizzazione della filiera. Come nel caporalato: non è responsabile solo chi utilizza i caporali ma anche chi utilizza i prodotti di chi utilizza i caporali.

Resta la solitudine dei lavoratori. Perché gran parte della sinistra ha abbandonato questo fronte?

Perché ha dato una lettura ottimistica della globalizzazione. Siamo a vent’anni dal G8 di Genova, questa sinistra ha pensato che il modello del capitalismo globale avrebbe esportato anche i diritti, e mantenuto quelli acquisiti. Le politiche di austerità hanno consentito invece l’importazione di modelli arretrati di organizzazione del lavoro. Nelle nostre campagne ci sono pezzi di terzo mondo. Nel frattempo la finanziarizzazione dell’economia ha svalutato il fattore lavoro. È una lettura che va profondamente rivista se si vuole provare a ricostruire un rapporto con il mondo del lavoro. Non basta indignarsi quando c’è un morto, o un licenziamento via whatsapp. Occorre ripensare questo modello, che non è solo il frutto della protervia dei singoli.

Il Pd è stato troppo ottimista sulla globalizzazione?

Lo è stata tutta la sinistra di governo, anche europea. Salvo poi rendersi conto che le diseguaglianze crescevano. Ero un giovane dirigente, ma è stato un errore anche mio.

Siamo anche a dieci anni dalla lettera della Bce firmata Trichet e Draghi che cambiò il corso politico all’Italia, via Berlusconi e al via il rigore di Monti. Anche allora il Pd scattò sull’attenti al diktat del rigore.

Invece questo errore non l’ho condiviso, con pochi altri denunciammo i rischi dell’agenda Monti. La scelta di Monti era forse inevitabile: il governo Berlusconi era andato sotto zero in termini di credibilità, e la condizione finanziaria era molto complicata. L’errore del Pd fu pensare di poter trasformare la medicina amara in una piattaforma programmatica per il futuro. Un errore conseguente a quello di dieci anni prima. Ma più imperdonabile del primo.

Fatte le dovute ed enormi differenze, e tolta di mezzo per ora la politica del rigore, anche oggi nel Pd c’è chi dice che l’agenda Draghi deve essere l’agenda del Pd.

Dobbiamo cogliere l’occasione del governo Draghi per imprimere un nostro punto di vista e i nostri contenuti in una agenda che è il frutto della convivenza di forze politiche molto distanti. L’occasione è data dal fatto che oggi il tema del rigore è superato e c’è uno spazio più grande per la sinistra. Che stavolta non si deve far scrivere l’agenda da nessun altro. Deve avere il coraggio di provare a scrivere la propria.

Volete mettere insieme le anime di sinistra nel Pd, sparse e frantumate. Superando una frammentazione che sembra inemendabile. Mission impossible?

È un obiettivo ragionevole. Il tema non è fare il bricolage delle correnti del Pd con più forte sensibilità sociale, ma mettere al centro la questione sociale e vedere chi si riconosce in questa priorità. Questo avrà una capacità di coagulo interno ma credo anche una possibilità di attrazione all’esterno. In quel trenta per cento che non va più a votare c’è una quota di persone che votavano a sinistra, che si riconoscono nei valori della sinistra ma che non trovano un’interpretazione abbastanza credibile di quella domanda.

Concretamente, e organizzativamente cosa significa?

Stare dentro le Agorà e porre il tema dell’identità del Pd come partito della lotta alle diseguaglianze, vecchie e nuove, del contrasto alla svalutazione del lavoro e alla polarizzazione fra garantiti e svalutati. Mi colpisce che in un paese dove si discute di reddito di cittadinanza e di salari troppo bassi nessuno si sia accorto che dopo dieci anni si è chiuso il contratto degli addetti alle pulizie, 600mila persone, donne in prevalenza. Non è una svista, è una rimozione.

Le critiche di Renzi e Salvini sul reddito di cittadinanza sono state autorevolmente archiviate da Mario Draghi, che ha detto di condividere quella misura?

Per questo va ringraziato, si stava innescando una questione solo ideologica, che nasce dal presupposto che i poveri siano pigri o poco intelligenti o, per dirla con la signora Thatcher, che la povertà è una conseguenza del carattere.

Nel Pd i «riformisti» criticano il reddito di cittadinanza.

I riformisti si caratterizzano per l’ambizione a migliorare lo stato delle cose. Il reddito di cittadinanza va migliorato, ma partendo dai dati, non è un metodo riformista partire da “mi ha detto mio cugino”.

I «riformisti» vi considerano grillini nel Pd.

Si abusa della definizione «riformisti». È una certa impostazione ad aver contribuito a far nascere il M5S perché ha ulteriormente indebolito la capacità della sinistra di farsi carico delle diseguaglianze sociali. E consegnato a classi dirigenti improvvisate l’interpretazione di un tema importante.

Conte dice che se vincerà cambierà la legge Cartabia. E voi con lui?

Il giustizialismo grillino è uno spin off del centrosinistra. Quando da responsabile giustizia del Pd proposi alcune riforme che andavano nella direzione della legge Cartabia, nel Pd mi fecero un processo. Molti opinionisti giustizialisti scrivevano nei giornali progressisti. Nell’esecrare il giustizialismo grillino c’è molta rimozione e autoassoluzione. Ricordo le richieste di dimissioni a ministri per intercettazioni pubblicate in modo abbastanza misterioso. Ma non mi nascondo che nel M5S ci sono ampie contraddizioni. La richiesta di modifiche alla legge Cartabia in alcuni casi era sensata. In altri, che non ho condiviso, era basata sull’utilizzo simbolico del diritto penale.

La riorganizzazione della sinistra Pd, che guarda anche fuori dal Pd, è un antipasto del prossimo congresso?

Tutti giorni è congresso, ormai la fluidità della politica non consente ore X. In una vicenda così drammatica come quella della pandemia, e così anomala come il governo Draghi, il congresso sono le sfide che un partito deve affrontare tutti i giorni.

Stefano Bonaccini è il front man di Base riformista, se non già il candidato in pectore. Voi sceglierete un leader? Sarà lei?

Ora pensiamo a vincere alle amministrative. E non so se Bonaccini voglia fare l’alfiere di una linea alternativa a Letta, che io ho sostenuto e sostengo. Mi pare che legittimamente provi a dire la sua sul dibattito nazionale. Il problema di questi anni è stato quello di partire dalle leadership e non da cosa ci tiene realmente insieme. Così, prima nell’ottica dell’antiberlusconismo poi dell’antisalvinismo si sono tenute insieme ricette economiche e sociali molto distanti e giustapposte che hanno condannato il Pd spesso all’afasia su questo terreno. Se ripartiamo dalle leadership facciamo lo stesso errore. Il leader, o la leader, decidiamolo quando abbiamo definito qual è la nostra funzione, anche perché quando sarà il momento non potremo andare alla campagna elettorale solo dicendo che c’è il lupo Salvini. Dovremmo dire cosa pensiamo sulle pensioni, sul reddito di cittadinanza, sulle politiche industriali, sulla casa. Su questo si costruirà l’identità politica.

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