Il grande scontro interno alla magistratura sta per cominciare e il primo atto è il procedimento disciplinare nei confronti di Luca Palamara. Da una parte c’è il collegio giudicante del Consiglio superiore della magistratura, che vuole circoscrivere i fatti alla trattativa per la nomina del procuratore capo di Roma e valutare le responsabilità del magistrato. Dall’altra, l’ex leader di Unicost ha costruito una linea difensiva che intende illuminare un sistema più complesso, da cui non sono estranei nemmeno i magistrati chiamati a giudicarlo.

Per farlo, Palamara non solo ha indicato i nomi di quanti sapevano e di quanti hanno preso parte con lui alla spartizione degli incarichi a capo delle procure italiane, ma li ha anche messi per iscritto. L’atto è depositato presso il Csm in forma di richiesta di autorizzazione alla citazione dei testimoni nel procedimento a suo carico davanti alla sezione disciplinare.

Nella lista ci sono 133 nomi, tra i quali figurano i vertici della magistratura italiana degli ultimi trent’anni, da Edmondo Bruti Liberati a Piercamillo Davigo, passando per gli ex presidenti dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte e Francesco Minisci; il vicepresidente del Csm, David Ermini, e i suoi predecessori, Giovanni Legnini, Michele Vietti e Nicola Mancino. Compaiono anche due ex ministri della Giustizia: Giovanni Maria Flick e Andrea Orlando. Ci sono politici come Anna Finocchiaro e Donatella Ferranti, e membri delle forze dell’ordine. Si arriva anche a lambire il Quirinale, con la chiamata del consigliere di Sergio Mattarella, Stefano Erbani.

La prima udienza del procedimento si svolge il 21 luglio 2020. Palamara è accusato di “comportamento gravemente scorretto” e “strategia di danneggiamento” nella trattativa per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone a capo della procura di Roma. Pignatone non compare nella lista dei testimoni. Inoltre, è accusato di avere interferito con l’attività del Csm in carica.

L’ipotesi di violazione è basata sulle intercettazioni, depositate agli atti del processo penale da Palamara. Nell’atto di incolpazione, il procuratore generale di Cassazione, Giovanni Salvi, fa riferimento alle conversazioni avvenute durante l’incontro del 2019 all’Hotel Champagne di Roma, nelle quali Palamara discuteva della nomina del procuratore capo di Roma con i parlamentari Luca Lotti, del Partito democratico, e Cosimo Ferri, oggi nel gruppo parlamentare di Italia viva, e cinque membri togati del Csm (che si sono poi dimessi). In sede di prima udienza disciplinare, il collegio dovrà valutare la lista di testimoni da sentire, secondo il criterio della rilevanza rispetto all’oggetto del giudizio.

Dal punto di vista dell’esito del procedimento, l’ammissione almeno parziale della lista è fondamentale per la linea difensiva di Palamara. Il magistrato è sospeso, senza stipendio, e rischia di essere rimosso dalla magistratura.

È però un processo innanzitutto politico: lo scandalo che ha investito il Csm dopo la pubblicazione delle intercettazioni provenienti dal cellulare di Palamara ha portato alla richiesta, da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di una riforma del Csm da parte del parlamento e contemporaneamente di un’autoriforma da parte dello stesso organo costituzionale.

Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Poniz, parlando al comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe, l’ha definita una “gigantesca questione morale della magistratura”. La difesa di Palamara è comunque vincente da un punto di vista tattico. Se la commissione disciplinare deciderà di accogliere la lista, il procedimento rischia di trasformarsi in un contro-processo al sistema della magistratura associata e delle sue commistioni con la politica. Se invece la sezione disciplinare deciderà di non ascoltare i testimoni, il risultato sarà di insinuare il sospetto che il tribunale delle toghe voglia ridurre uno scandalo alla condotta di un singolo magistrato.

Per Palamara si tratta di evocare una specie di chiamata in correità dell’intero sistema. La logica è: se il magistrato va rimosso, allora lo stesso deve accadere anche a tutti coloro che hanno beneficiato del suo aiuto e hanno contribuito alla spartizione. In un’intervista a Repubblica, Palamara ha detto che non è disposto a “essere considerato il solo responsabile di un sistema che ha fallito e che ha penalizzato coloro i quali non risultano iscritti alle correnti”.

La questione su cui punta la difesa di Palamara è - come scrive nella richiesta di autorizzazione alla lista dei testimoni - l’esistenza o meno di una “prassi costante, da parte dei magistrati aspiranti agli incarichi direttivi, di conferire direttamente o per interposta persona con i componenti in carica del Csm”. E questa domanda viene posta a tutti i chiamati: ai consiglieri del Quirinale, al Csm, all’Anm e ai referenti delle varie aree politiche. Palamara vuole anche dimostrare l’uso mirato del Trojan, il virus utilizzato per captare i contenuti del suo cellulare, e dunque insinuare il dubbio che l’indagine di Perugia a suo carico abbia delle zone d’ombra.

È questo il motivo per cui tra i testimoni compare anche l’ufficiale della polizia giudiziaria della Guardia di finanza di Roma, Gerardo Mastrodomenico, che dovrà spiegare perché il microfono non venne spento nonostante il provvedimento del pm di Perugia del 10 maggio 2019 che chiedeva chiaramente di non intercettare incontri a cui erano presenti parlamentari. Duilio Bianchi, il direttore di divisione IP della Rcs, la società che svolgeva le intercettazioni, dovrà spiegare “le modalità di funzionamento del captatore informatico” e le ragioni per cui “in giorni e orari di attivazione si siano verificate interruzioni nelle captazioni”. Dalle risposte dipendono la credibilità ma soprattutto la legittimità delle indagini condotte dai magistrati di Perugia. E di conseguenza la sostenibilità in giudizio dei capi d’accusa a carico di Palamara, in parte già archiviati.

Ora spetta alla commissione del Csm rispondere alla mossa processuale della difesa. Ma rimane da dirimere il problema della composizione del collegio giudicante. I sei componenti sono il vicepresidente del Csm, David Ermini, il giurista e componente laico del consiglio, Fulvio Gigliotti, il giudice di Cassazione e leader della corrente Autonomia & indipendenza, Piercamillo Davigo, il togato di Unicost, Marco Mancinetti, la giudice del tribunale di Milano, Paola Maria Braggion, di Magistratura indipendente, e Giuseppe Cascini, sostituto procuratore a Roma ed esponente della corrente progressista Area.

Il presidente del Collegio, David Ermini, e i consiglieri Mancinetti e Cascini si erano già astenuti nel procedimento cautelare che sospese Palamara nel 2019 e potrebbero ribadire l’astensione. La difesa di Palamara, inoltre, ha depositato al Csm una memoria in cui anticipa l’istanza di ricusazione di Piercamillo Davigo, che compare tra i testimoni citati. Secondo il legale del pm, il magistrato della Cassazione Stefano Giaime Guizzi, se Davigo non si astenesse dal giudizio “si verrebbe a determinare la singolare situazione di un soggetto che riveste, nello stesso processo, la posizione di teste su taluni dei fatti oggetto di incolpazione, nonché di giudice degli stessi”.

La stessa richiesta nei confronti di Davigo era già stata presentata nel procedimento cautelare. In quel caso, però, il collegio giudicante l’aveva dichiarata inammissibile e la difesa aveva presentato ricorso, sostenendo l’illegittimità della composizione del collegio stesso.

La questione della composizione del collegio è stata risolta da una sentenza di quest’anno che si rifà a una legge secondo la quale la ricusazione di un componente va decisa dalla stessa sezione, dopo aver sostituito il componente in questione con il supplente corrispondente. Inoltre la stessa sentenza ha ribadito che la sostituzione dei membri “non può avvenire con un componente laico se il ricusato è un togato, o viceversa, perché la Costituzione impone una determinata proporzione tra laici e togati e tale equilibrio non può essere alterato. Un analogo vincolo costituzionale non sussiste, invece, per le sostituzioni all’interno delle due grandi categorie (laici e togati)”. Dunque, nel caso in cui la proporzione non sia riproducibile per mancanza di supplenti, il collegio si può comunque costituire legittimamente.

Nel caso del collegio che si esprimerà su Palamara, il Csm ha approvato la modifica del regolamento interno, prevedendo l’aumento del numero di magistrati supplenti da dieci a quattordici. È stato anche studiato in commissione un meccanismo tabellare che permetta la sostituzione immediata dei membri astenuti o oggetto di ricusazione, in modo da neutralizzare il blocco del procedimento davanti al collegio.

La volontà della difesa rimane quella di rendere evidente il cortocircuito tra incolpato e giudicanti. Con l’obiettivo di dimostrare che mettere sotto accusa Palamara significa processare l’intero Csm in carica e la magistratura associata.

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