Era inerte, sembrava un manichino. Era a terra, come un pugile messo ko e con l’avversario che però continuava a colpirlo una, due, tre e anche quattro o cinque volte. La perizia medica che ribalta un’indagine frettolosa svela che «era già privo di sensi» e ogni calcio «gli faceva sbattere il cervello dentro la testa». Sino a quando se n’è andato, sino a quando è morto. E non lo ha ucciso solo il reo confesso, il ragazzo minorenne che si è candidamente attribuito il crimine, l’assassino che piaceva esageratamente a tutti. Forse sono stati anche altri, forse, perché solo il processo potrà dire davvero chi e perché ha voluto un massacro in una notte di san Valentino palermitana.

Della vittima, Aldo Naro, venticinque anni, appena laureato in medicina, ce ne siamo occupati l’estate scorsa raccontando le incoerenze di un’indagine giudiziaria e la dolorosa rabbia della famiglia, le inspiegabili incertezze della procura e il contesto marcio nel quale è maturato l’omicidio. Un giudice non solo ha ordinato nuove indagini, ma adesso un altro giudice ha indicato pure chi avrebbe partecipato al delitto.

I “dimenticati” dell’indagine

Non c’è un unico assassino con una condanna passata in giudicato, ci sono anche i “dimenticati” da un’inchiesta quanto meno incompleta. Dopo sette anni vanno a giudizio tre ragazzi precedentemente ignorati nonostante gli indizi a loro carico, nonostante lo stato del cadavere, nonostante una mancata consulenza per individuare i volti ripresi da una telecamera.

Tracce per lungo tempo sottovalutate da una giustizia tortuosa che ha inghiottito Aldo Naro in una Palermo di silenzi e finzioni. Loro, Gabriele Citarella, Francesco Troia e Pietro Covello, i primi due vigilantes regolari della discoteca Goa dove Aldo Naro è stato ammazzato e l’altro buttafuori abusivo ingaggiato per mantenere “tranquillità” nel locale dentro i confini del turbolento quartiere dello Zen, entrano nella “scena del crimine” per ordine del giudice Rosario Di Gioia che qualche giorno fa, in udienza preliminare, ha accolto le richieste della procura.

Una svolta, dopo insistenti tentennamenti e uno sguardo investigativo concentrato soltanto su Andrea Balsano, diciassette anni, adolescente cresciuto proprio allo Zen, il profilo di un assassino ideale per una vicenda che dentro di sé racchiudeva e ancora racchiude più di un mistero.

A cominciare dallo svolgimento dei fatti. Anche se tutto era ben fissato, e con dovizia di particolari, in un’informativa dei carabinieri di 191 pagine, i magistrati titolari dell’inchiesta sull’omicidio hanno preferito circoscrivere le responsabilità al solo minorenne. Una scelta che non ha aiutato a chiarire come e perché Aldo Naro è stato ucciso.

Futili motivi o altro?

Figlio di un colonnello dell’Arma che era il capo del nucleo di polizia giudiziaria al tribunale di Caltanissetta, la notte del 14 febbraio 2015 era al Goa insieme alla sua fidanzata Simona Di Benedetto e altri sette fra amici e amiche. Erano dentro un privé della discoteca, i tavoli erano tre. Intorno a loro due tavoli con trenta ragazzi e ragazze. Alcuni avevano precedenti per spaccio, altri legami familiari con mafiosi della zona. La versione ufficiale parlava «dell’esplosione di una rissa per il furto di un cappello», motivi futili.

Tutto avviene in quindici minuti, dalle tre alle 3,15. Nel privé irrompono gli addetti alla sicurezza, tre sono assunti dai proprietari della discoteca e tre invece sono abusivi, manovalanza che serve per tenere a bada gli appetiti del territorio. Aldo Naro è sprofondato in una poltrona, un attimo dopo è il bersaglio principale dei buttafuori. Lo trascinano all’esterno del privé, lo fanno rotolare da una rampa di scale, è a terra quando il suo destino è già segnato.

Secondo una prima traballante ricostruzione dei procuratori colpito da Andrea Balsano «che gli sferrava un violento calcio al capo», colpito anche dagli altri buttafuori secondo le nuove indagini. Dopo il massacro, uno dei proprietari della discoteca ordina ai vigilantes di trasportare Aldo in un giardino. Lì attende un’ambulanza. E in ambulanza muore. Un cadavere e tutti gli altri protagonisti della rissa senza neanche un graffio.

Genitori “visionari”

Ci sono voluti anni e anni per arrivare a una nuova ricostruzione della dinamica del delitto, appelli dei genitori di Aldo che in più occasioni sono stati presi come visionari e “impazziti per il dolore”, istanze su istanze degli avvocati di parte civile intorno ai tanti buchi neri dell’indagine.

La Tac eseguita sul cadavere di Aldo mai acquisita nel fascicolo processuale e poi sparita anche dal sistema informatico del policlinico di Palermo, il telefono cellulare di Aldo che da un verbale risultava sequestrato dagli inquirenti ma quattro giorni dopo era ancora in possesso della fidanzata, le telecamere della sorveglianza sequestrate in ritardo. E poi la nuova perizia: «Un solo colpo non avrebbe potuto generare tale emorragia cerebrale e le lesioni ossee..».

Non solo quel calcio sferrato da Andrea Balsano, il reo confesso condannato sino in Cassazione a dieci anni di reclusione, poi rilasciato «per il suo percorso di ravvedimento» ma senza mai avere avuto una parola di conforto per la famiglia di Aldo.

«Questa complessa vicenda giudiziaria è stata segnata fin dall’inizio dall’omertà dei possibili testimoni, da lacune investigative e da aspetti inquietanti. È semplicemente incomprensibile come la procura di Palermo abbia escluso categoricamente per molti anni il coinvolgimento nell’omicidio di soggetti diversi da quel minorenne. Adesso, finalmente le cose sembrano cambiate anche in procura ma la strada da fare è ancora lunga», dichiarano Antonino e Salvatore Falzone, i penalisti che difendono la famiglia Naro.

Gli ostinati silenzi degli amici della vittima presenti quella sera alla discoteca Goa, le ambiguità dei titolari del locale, la resistenza a esplorare piste alternative.

Cosa c’era e cosa c’è di tanto indicibile nella morte di Aldo Naro? Il ventre di Palermo non nasconde solo le grandi storie di mafia ma custodisce altri segreti. Perché, ad esempio, non sono state mai tenute in debito conto le parole del giovanissimo reo confesso, intercettato con le microspie in una cella del carcere minorile Malaspina.

Le microspie

È il 20 febbraio del 2015, appena cinque giorni dopo l’omicidio di Aldo, e Andrea Balsano racconta ai compagni detenuti la notte in discoteca, ricostruisce vagamente la dinamica della rissa, parla del calcio, il suo calcio.

Dal dialogo emergono i primi sospetti. Detenuto uno: «Ma chi minchia ti ci ha portato?». Andrea: «Ma se gli serviva a tutti il nome». Detenuto due: «E ti stai ammuccando (ti stai facendo, ndr) la galera?». Detenuto uno: «Come si chiama questo ragazzo». Andrea: «Giuseppe». Detenuto due: «Non è che lo hanno preso è...». Andrea: «Perché facendo questo nome perdiamo..».

Annotano i carabinieri: «Il Balsano Andrea confermava di essersi consegnato per “dare un nome all’autore del fatto”, lasciando così intendere che lo stesso aveva dovuto sottomettersi alla volontà di terze persone». 

E continuano: «Nella stessa conversazione il Balsano faceva un esplicito riferimento a “Giuseppe”, persona che si ritiene identificarsi nel più volte menzionato Militano».

Giuseppe Militano, figlio di Carmelo e fratello di Francesco, tutti e due «esponenti di Cosa Nostra attualmente detenuti poiché responsabili del reato di cui all'articolo 416 bis». Sono due capi della mafia dello Zen.

Prima è Francesco Militano che fa la guardiania al Go”, quando viene arrestato - nel giugno del 2014 - il suo posto lo prende il fratello Giuseppe. I Barbaro, padroni della discoteca, attraverso amici contattavano esponenti vicini a Cosa Nostra che a loro volta assoldavano «quattro padri di famiglia che avevano bisogno» impiegandoli in servizi di sorveglianza. Una sorta di estorsione mascherata.

L’appello alla procuratrice Sabella

I Barbaro erano iscritti a Addiopizzo, la famosa associazione antiracket della città. Il doppio volto di Palermo. Ora il padre e la madre di Aldo, Rosario Naro e Anna Maria Ferrara, lanciano un appello a Marzia Sabella, il procuratore aggiunto che da qualche mese regge l’ufficio in attesa del nuovo capo dell’ufficio dei pubblici ministeri palermitani: «Ci rivolgiamo a lei pregandola di esaminare l’intero fascicolo d'indagine e valutare tutte le nostre istanze depositate».

Più che una rissa casuale loro pensano a un brutale pestaggio. Movente al momento ignoto. Come, naturalmente, tutte da dimostrare sono le responsabilità dei tre nuovi indiziati. Per loro, il processo, si aprirà in corte di assise il prossimo 9 giugno.

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