Per parlare con Paolo Di Paolo del linguaggio di Elly Schlein (nuovo? quanto nuovo?efficace? utile a allargare il Pd o a rimpicciolirlo?) al momento non si può non partire dalla parola «armocromista», quel pentasillabo che ha fatto balbettare i suoi compagni di partito.

Premette lui: «Il moralismo pauperista è pericoloso perché ti mette addosso una croce rispetto alla possibilità di fare quello che ti pare con i soldi che hai, se non li rubi. È una specie di togliattismo pretenzioso che ti vorrebbe straccione anche se hai buon gusto. E che rischia di avallare un’ipocrisia», spiega lo scrittore, di solito definito “il giovane scrittore” (è del 1983, tra poco compie quarant’anni tondi), titolare di un programma radiofonico su RadioTre che è perfetto per questo discorso: si intitola «La lingua batte» (in onda la domenica alle 10 e 45, ascoltare per credere). Di Paolo ammette che non ci sono solo rose e fiori nella scelta di rivelare di avere una consulente cromatica: «Si può sindacare sul senso di dare un’intervista a Vogue in una fase in cui ti stai costruendo un rapporto con l’elettorato. Se è un passo falso che non ha calcolato la canea successiva. Insomma, se trattasi di autosabotaggio».

Si può controsindacare che il “linguaggio” di Schlein è volutamente diverso da quello dei suoi predecessori alla guida del Pd?

Certo. Nelle sue parole spira freschezza. Nel modo, a volte anche goffo, in cui è andata a farsi prendere per il culo da Alessandro Cattelan (su Rai Due, ndr) . L’effetto cercato è simpatia e confidenza. Lo può fare perché ha la capacità di essere istintiva, un altro pianeta rispetto al paludatissimo Enrico Letta e alla vorticosamente autoreferenziale oratoria renziana, quella dell’eccesso di saliva e della logorrea con ghigno, sberleffo e accelerata, una specie di Bonolis della politica. Per non dire del Bersani delle metafore contadinesche da osterie dell'Emilia buona, quelle che poteva capire mia nonna, buona ancora oggi per certe trasmissioni tv, perché le guardano gli over 50, fai pure 60. Schlein non usa il politichese, sembra parlare per conto suo, ed è la cosa che attrae di più. Sembra che partorisca le risposte sul momento. In certi momenti ha un attimo di esitazione, hai l’impressione che in quel momento esatto stia ragionando. Usa un campo semantico generazionale. E non ha il rigor mortis dei predecessori.

Schlein avvicina un pubblico diverso da quello tradizionale Pd?

Un pubblico e potenzialmente un elettorato. L’audience te la costruisci presentandoti alla tua platea. È fatta di componenti eterogenee: il fedelissimo che non va deluso, quello rassegnato che ai gazebo sa di avere eletto il prossimo ex segretario; ma anche l’elettore potenziale. Schlein cerca un pubblico da trasformare in elettori. Il rischio è perdere il Fioroni Ignoto, l’eterno democristiano 4.0. Ma credo che sia un rischio calcolato se ha deciso di dare una sterzata a sinistra.

Schlein ha fatto davvero una sterzata a sinistra?

Mi viene da rispondere: a sinistra di che? A sinistra del Pd degli ultimi anni? È facile. Adesso il punto è un altro: il Berlingueriano Ignoto, che ha vissuto stagioni di lotta e partecipazione commoventi, quelle che stanno nel film di Moretti o in quello di Veltroni, è uno che ha una memoria forte delle istanze sindacali, operaiste, e può percepire che sul tavolo non ci sono più solo le questioni per cui ha riempito piazza San Giovanni tutti i Primimaggio e tutti i Venticinqueaprile. E allora dice: ma Elly che ne sa della sinistra?

Schlein, al primo discorso da segretaria, ha ammesso di non avere una formazione politica. Senza complessi.

E questo è un passaggio vero. Io sono dell’83, lei dell’85, siamo quasi coetanei. Lasciamo perdere la mistica della giovinezza di questo paese, che ti consente di fare qualcosa quando sei almeno un po’ invecchiato. Siamo nati quando Berlinguer usciva di scena, avevamo appena imparato a leggere quando il Muro di Berlino è caduto. Lei rivendica la non appartenenza a parametri ideologici novecenteschi. Ma non in modo tronfio, da ignorante compiaciuta. È un post-ideologico consapevole, non incosciente e sprezzante. Brava. Io questa mancanza di formazione la vivo come un problema. Ma Schlein ha l’energia per scavalcare il complesso, per non farsi irretire in una nostalgia recitata, che è peggio della vera nostalgia, che è già pericolosa.

Vecchie militanze alle ortiche?

Sto dicendo che lei, come me, è cresciuta negli anni 90. A noi ci divideva Berlusconi. L’ho raccontato in un libro, “Dove eravate tutti”: quando ho fatto la prima comunione c’era Berlusconi, all’esame di terza media c’era Berlusconi, quando ho preso la patente c’era Berlusconi, ho dato il primo bacio sotto il governo Prodi ma è l’unica cosa che mi è successa sotto un governo di centrosinistra, per il resto c’era sempre Berlusconi. Non basta a fare una coscienza politica? Vero. Ma è stato l’unico collante e dividente. Avevo 18 anni nei giorni di Genova 2001, l’ultimo vero grande appuntamento pubblico generazionale, una gigantesca occasione mancata. Ma dobbiamo fingere che abbiamo avuto come maestri Vittorio Foa e Pietro Ingrao, o che Achille Occhetto ha determinato qualcosa nella nostra coscienza? Sarebbe una recita.

Anche lei, Bruto: sta dicendo che dobbiamo dire addio alle ideologie?

E se fosse la volta buona, letto per tempo “Destra e sinistra” di Bobbio, per convincersi che i valori non stanno in cassetta di sicurezza? Schlein ha il coraggio di dire che siamo una generazione senza formazione e post-ideologica, cosa che ci buttano addosso come se fosse una colpa. Non dico di considerarlo un vantaggio, ma un dato di realtà. Essere di sinistra nel 2023 è provare a rispondere a bisogni che la sinistra che veniva dal quel complesso ideologico non ha saputo intercettare. E a chi dice che prima era meglio, rispondo: la sinistra che si richiama costantemente alla storia del comunismo e del post comunismo, è naufragata. Se non rappresenti più nessuno, se il Pd non è stato percepito come la risposta all’antipolitica ma proprio il partito da cui scappare, se l’elettore che ha smesso di votare il Pd perché era disgustato dal Pd, insomma se il ricatto della storia non funziona più, prendiamone atto una buona volta. Non dobbiamo tagliare i ponti, ma non ha senso mettersi sulle spalle qualcosa che non è nostro.

C’è chi accusa Schlein di essere troppo “americana”, di ispirarsi a figure come Ocasio Cortez.

Torniamo su schemi caricaturali. La mia generazione rischia di essere contraddittoriamente antiamericana per partito preso, perché pure questo l’avevamo ereditata da padri e fratelli maggiori. Sono stato in piazza da pacifista nel 2003 durante la guerra in Iraq, e certo quella era una spinta molto antiamericana. Ma oggi di fronte a una guerra come quella della Russia contro l’Ucraina il tema non è stare contro l’America o contro la Nato ma ricomporre un pacifismo aggiornato ai tempi. Non retorico, e nemmeno un po’ grossolano come quello di Carlo Rovelli. Detto ciò, Schlein si rifà al modello Obama? E fa bene. Io mi ricordo la notte dell’elezione di Obama come una botta di entusiasmo. La sensazione potente di un avanzamento, di un’idea di progressismo laico liberale con poste in gioco che erano civili e sociali. Il sogno di un elettorato progressista, un’internazionale di valori, il sol dell’avvenire dei nostri tempi, contro l'internazionale nera del populismo da Meloni a Trump. A quelli come me, diciamo la verità. Credo ci abbia condizionato di più quella notte che il giorno in cui i padri raccontavano i funerali di Berlinguer.

C’è una coppia Meloni-Schlein?

Sono due donne, hanno abbassato vertiginosamente la media d’età dei leader italiani, questo sì. Ma una si è circondata di coetanei, l’altra si porta appresso un codazzo di maschi intossicati dalle lezioni sbagliate, fra cui il presidente del senato: si liberi dalla zavorra. Schlein, dall’opposizione, dà la sensazione di non essere «ricattabile» dai suoi, Meloni sì, i suoi maschi misogini la costringono a continui imbarazzi e smentite.

Ma vorrei dire una cosa a Schlein: quando va a cena, oltre a scegliere la mise, faccia attenzione anche ai padroni di casa. Capisco che i grandi registi e i vip siano interessanti singolarmente presi, ma occhio a non finire in un certo terrazzume già da tempo inquadrato da Ettore Scola. Il partito che ha in testa non dovrebbe avere bisogni di terrazzamenti, che sono molto peggio che posare per Vogue. Inutile che Baglioni si lagni coi giornalisti, il punto non è lui. Quindi occhio a chi viene a cena: una sana regola andreottiana che alla fine vale sempre.

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