Il Partito democratico è nato nel 2007 e uno dei princìpi portanti della nuova forza politica a vocazione maggioritaria era la sovrapposizione tra la figura del segretario politico eletto con primarie aperte e quella del candidato presidente del Consiglio.
Lo statuto approvato nell’Assemblea costituente, infatti, recitava che «il segretario nazionale rappresenta il partito, ne esprime l’indirizzo politico sulla base della piattaforma approvata al momento della sua elezione ed è proposto dal partito come candidato all’incarico di presidente del Consiglio dei ministri».

Proprio questa previsione così caratterizzante per la forma partito ha, però, subito numerose modifiche. Di ritocco in ritocco è stata definitivamente cancellata nel 2019, sdoppiando i due ruoli e avvicinando alla prassi ormai invalsa nel partito quello che era l’ideale fondativo.

Il primo è stato Renzi

La prima modifica sostanziale arriva nel 2012: sono i primi anni della rottamazione e dell’ascesa dell’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi. Il segretario del partito è Pier Luigi Bersani e in palio c’è la candidatura a premier per il centrosinistra nella tornata elettorale del 2013.

Lo statuto prevede che l’unico candidato ufficiale del Pd alle primarie di coalizione sia Bersani, ma Renzi vuole competere a tutti i costi e Bersani non intende forzare. È così che il segretario perde il suo primato e viene approvata la prima deroga allo statuto: una previsione quasi “ad personam” per Renzi, che consente a più candidati democratici di correre alle primarie di coalizione.

È così che, modificando le previsioni originarie, nel luglio 2012 gli sfidanti per il titolo di candidato premier del centrosinistra alle elezioni politiche sono per il Pd il segretario Bersani, lo sfidante Renzi e l’outsider veneta Laura Puppato, oltre al leader di Sinistra ecologia e libertà, Nichi Vendola, e al centrista Bruno Tabacci.

Bersani vince le primarie, ma nella sfida elettorale contro il centrodestra di Silvio Berlusconi ottiene una “non vittoria”, aprendo la strada al governo di larghe intese di Enrico Letta.

Il 2013, però, è anche l’anno in cui si celebrano le primarie interne per eleggere il nuovo segretario. Ed è il momento di una nuova modifica dello statuto per velocizzare l’iter e permettere di celebrarle l’8 dicembre. Prima, però, il partito si divide profondamente: la sinistra del partito vorrebbe introdurre una divisione tra militanti e elettori senza la tessera; Renzi, invece, vuole mantenere le primarie aperte.

All’origine del dualismo c’è l’idea di che cosa debba essere il segretario: se solo colui che guida il partito dandogli la linea politica oppure anche il candidato premier naturale.

Dopo le polemiche, tuttavia, lo statuto non viene modificato su questo punto: Renzi preme perché rimanga la previsione che il segretario sia anche il candidato premier e viene incoronato alla guida del Pd. Tre mesi dopo la direzione del partito sfiducia il premier Letta e approva la staffetta a palazzo Chigi con il segretario.

La svolta di Zingaretti

La modifica che non era riuscita a Bersani, riesce invece a Nicola Zingaretti. Eletto segretario nel 2018, oltre al motto «mai con il Movimento 5 stelle», uno dei tratti distintivi della sua mozione “Piazza grande” è la non necessaria coincidenza tra la figura del segretario e quella del candidato premier. «Basta con l’egocrazia», diceva Zingaretti. E proprio questa visione si è concretizzata nella più imponente riscrittura dello statuto da quando il Pd è nato, approvata dall’Assemblea nel 2019. Le modifiche ai 47 articoli dello statuto sono 11 e ridisegnano il volto del partito, «proiettandolo negli anni Venti».

La scelta di fondo delle primarie aperte per eleggere il segretario rimane, a venire cancellato invece è l’automatismo per il quale il segretario è anche candidato alla presidenza del Consiglio.

La ragione politica dietro la modifica ha a che fare con l’archiviazione del Pd a vocazione maggioritaria: ideale fondativo che voleva i dem elettoralmente autosufficienti nell’ottica di un modello bipolare, che però è stato considerato superato dalla nuova segreteria.

Ora, infatti, lo statuto prevede che il segretario sia «proposto dal partito come candidato all’incarico di presidente del Consiglio dei ministri» ma, «nell’esercizio della sua leadership elettorale e istituzionale», il segretario può proporre «alla direzione nazionale un diverso candidato all’incarico di presidente del Consiglio, quando lo ritenga opportuno per gli interessi del paese e del partito».

Così dunque il Pd zingarettiano è tornato a una prassi partitica più vicina a quella dei partiti novecenteschi, con la direzione nazionale (comunque espressa dalla maggioranza che lo ha eletto) come luogo di condivisione collegiale di un candidato leader alternativo, ma sempre e comunque proposto dal segretario.

Se nell’idea originaria dei dem proprio l’investitura attraverso le primarie sosteneva la candidatura a palazzo Chigi, ora invece si è aggiunto un passaggio ulteriore, filtrato attraverso l’organo interno al partito. Una scelta, questa, che rende la leadership astrattamente più contendibile, ma nell’alveo della maggioranza congressuale.

La segreteria di Zingaretti ha anche cambiato le regole del congresso, che può essere convocato non solo per eleggere il segretario ma anche per discutere la linea politica, ovvero la possibilità per il segretario di proporre un «congresso straordinario per tesi».

Una scelta, questa, che è nata proprio con la nascita del Conte bis dopo che Zingaretti aveva vinto il congresso escludendo l’alleanza coi grillini. Con un congresso per tesi, teoricamente, sarebbe possibile “aggiornare” la linea politica del partito, ma senza necessariamente cambiare segretario.

Eppure le dimissioni di Zingaretti dimostrano che è rimasta, almeno, la sovrapposizione tra segretario e la mozione con cui è stato eletto. E che le correnti sono definitivamente tornate ad essere il corpo intermedio tra vertice e elettori.

 

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