Girarsi a sinistra e imparentarsi con la lista rossoverde che da mesi lavora all’alleanza con il Pd. O girarsi dall’altra parte, sposarsi con Azione e +Europa e accettare tutti i suoi paletti. Enrico Letta è a un bivio. Ieri la sua giornata è stata un rincorrersi di riunioni e telefonate per preparare la proposta che stamattina farà alla direzione del partito e ai parlamentari. Chiederà un mandato a trattare con tutte le forze alleabili.

La sua linea politica, oltreché la sua natura di paciere, lo spingono a evitare altre rotture dopo quella, insanabile, con i Cinque stelle. È l’unica strada per salvare la competizione in molti collegi uninominali, soprattutto al nord. Ma i due potenziali alleati al momento si presentano alla trattativa come alternativi l’uno all’altro.

Patti chiari, inimicizia lunga

Ieri Carlo Calenda ed Emma Bonino hanno presentato il «manifesto» di un «patto repubblicano». Punti «non generici», spiega Calenda: rigassificatori, termovalorizzatori, «se necessario militarizzando le aree in cui devono esserci»; revisione del reddito di cittadinanza. «Chi ci vuole stare ci sta e siamo molto contenti. Non so se Bonelli e Fratoianni vogliano i termovalorizzatori ma so che sono quelli che stanno dicendo che l’agenda Conte era meglio dell’agenda Draghi. Ma questi sono fatti che riguardano il Pd non noi». Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, i due capofila della lista rossoverde, mettono a verbale che la ricetta Calenda per loro «è irricevibile». Oggi presenteranno il simbolo. Quanto all’alleanza con il Pd, fin qui data per scontata, ora rispondono «vedremo».

Con Letta parleranno dopo la direzione di oggi. Dall’altro lato, Emma Bonino ha rivelato che «l’interlocuzione con il Pd è iniziata da appena ventiquattro ore. In questi anni il Pd ha preferito altri interlocutori, come i Cinque stelle». Calenda, che nel frattempo ha imbarcato alcuni ex forzisti, la ministra Mariastella Gelmini e il senatore Andrea Cangini, di Cinque stelle non vuole sentire parlare. Né di ex M5s. «Di Maio chi?», è la battuta velenosa che riserva al ministro degli Esteri. Eppure secondo il deputato Riccardo Magi quella del «patto repubblicano» è l’unica ipotesi «davvero espansiva e in grado di cambiare l’esito delle elezioni che in molti danno per scontato».

Draghi premier

I due possibili alleati del Pd si sfidano a distanza sui programmi. Calenda propone «l’agenda Draghi» come perimetro dell’alleanza. Per Sinistra italiana il problema neanche si pone: è stata all’opposizione dell’ultimo governo. Né si pone l’idea di indicare Draghi come premier. Invotabili anche alcuni eventuali candidati di Azione, in primis Gelmini, ex ministra dell’Istruzione del governo Berlusconi.

In realtà l’indicazione di Draghi premier, che piace ai riformisti del Pd, è un dito nell’occhio anche per il segretario dem. Lo dice in chiaro Matteo Ricci, sindaco di Pesaro: «Il candidato premier del Pd è Letta». Da statuto le cose stanno così. Ma dal Nazareno arrivano secchiate di acqua fredda sui fuochi che il leader di Azione accende maliziosamente contro il segretario: la posizione di Ricci «è del tutto personale», viene spiegato, «noi non siamo la destra che litiga su palazzo Chigi e sugli incarichi prima ancora di fare le liste», anche se «in merito al giudizio su Mario Draghi, nessuno può avere dubbi su ciò che pensano Letta e il Pd. Ma non è un tema in agenda ora».

Calenda non si fa sfuggire l’occasione di una controreplica: Letta è «persona seria» ma «per Azione e +Europa il candidato presidente del Consiglio non può essere Letta. Forzare su questo punto chiuderebbe immediatamente la discussione». A sua volta la sinistra aspetta di sapere le scelte del Pd: da questa parte non è stata mai esclusa un’alleanza con i Cinque stelle. Se il Pd scegliesse Azione praticamente rispingerebbe Fratoianni fra le braccia di Conte.

L’alleanza tecnica

Letta cerca di prendere tempo, anche se il tempo in realtà è poco. Entro il 22 agosto dovranno essere dichiarati e depositati programmi e alleanze. Ciascuno il suo, però. Ed è questa la ragione per cui l’ala sinistra del Pd fa circolare, fin qui senza paternità, l’idea di una «alleanza tecnica»: visto che non c’è tempo per stilare un programma comune, è il senso del ragionamento, si può costruire un cartello di forze contro le destre, ciascuno con il proprio programma, il che consentirebbe almeno di avere candidati comuni all’uninominale.

Il Rosatellum è un capolavoro di perfidia (che potrebbe rivoltarsi contro chi l’ha commissionato, e cioè Renzi, fin qui rifiutato da tutti i possibili partner). Intanto contro gli outsider che devono raccogliere 40mila firme entro metà agosto (ieri la sinistra dell’Unione popolare, Prc in testa, ha scritto al Quirinale denunciando «il vulnus democratico»; per la stessa ragione l’associazione Luca Coscioni invece ha scritto a Mario Draghi, puntando a un decreto correttivo). Per chi non deve raccogliere le firme, invece, le alleanze sono praticamente obbligatorie: la scheda è unica per il proporzionale e per il maggioritario.

La legge consente di non presentarsi fino al 30 per cento dei collegi, ma in questo caso non verrebbe presentata neanche la lista proporzionale: quindi di fatto la «desistenza» è impraticabile.

D’altro canto l’«alleanza tecnica» di partiti che hanno programmi inconciliabili sembra altrettanto impraticabile: per tutti, dal Pd a Azione alla sinistra (che accetterebbe solo un’alleanza generale contro le destre, M5s compreso).

Letta giudica «positiva» l’apertura di Calenda, ma ha bisogno di tempo per risolvere il rebus. Che non è l’unico del Pd. E neanche il più urgente. Oggi la direzione allargata ai gruppi parlamentari. Si punta sui sindaci, che però per correre devono dimettersi entro giovedì 28 luglio. C’è il nodo dei candidati presidenti di regione (in corsa di sicuro quello del Lazio Nicola Zingaretti, viene invocato da Renzi quello dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini); e quello delle deroghe ai parlamentari più longevi.

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