Del lungo post che Matteo Renzi riserva all’attacco quotidiano al Pd, c’è una parte che brucia particolarmente ai democratici. È quella in cui fa i conti degli incarichi d’aula (vicepresidenti, questori, segretari d’aula) votati mercoledì: «Il Pd con 107 parlamentari ha ottenuto cinque posti; i Cinque stelle con ottanta parlamentari hanno preso ben sette posti: grazie ad alcuni franchi tiratori dem e Cinque stelle, la follia di questo Pd ha regalato ai grillini due posti in più». La conclusione di Renzi è che si sia trattato di «fuoco amico».

Renzi, che ieri non era nella delegazione che si è recata al Quirinale per i suoi «molti impegni internazionali» (l’espressione è di Carlo Calenda), accusa Enrico Letta di un patto con il M5s per escludere il terzo polo, anche se poi, d’ufficio, i presidenti delle camere gli assegneranno un segretario d’aula. Ma non è questa parte del ragionamento a far male. È l’altra. Quella che sottolinea l’esordio inglorioso del Pd nelle aule parlamentari.

Per fortuna di Letta, grazie al nuovo «audio» di Silvio Berlusconi, la notizia è rimasta sottotraccia. Il fallimento brucia. Soprattutto perché è il (primo?) segnale, se non di un malumore nei gruppi, di un qualche sfilacciamento.

Mercoledì al Senato è saltata l’elezione di Daniele Manca, bonacciniano doc, e alla Camera quella di Stefano Vaccari, sinistra ex zingarettiana. Nel caso di Manca viene spiegato che il Pd è stato semplicemente “fregato” dai meloniani, che avrebbero tradito la parola data. FdI ha preso un uomo in più e alla fine lo ha anche ammesso: sono in molti ad aver sentito la telefonata tra Marco Meloni, uomo-macchina di Letta, a sua volta eletto questore, con Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI alla Camera, plenipotenziario di Giorgia Meloni, che prometteva una futura «compensazione».

Sindrome da pre congresso

Meno lineare il risultato della Camera, che ha visto mancare a Vaccari almeno quattro voti. Da questa parte c’è il sospetto di fuoco amico, come dice Renzi. I deputati non hanno dubbi sul fatto che l’accordo con i Cinque stelle abbia tenuto. A taccuini segnalano sia qualche ingenuità da parte di chi ha trattato, sia il sospetto di qualche tiro mancino da voto segreto. Una debolezza che non si dovrebbe ripetere quando si tratterà di eleggere i presidenti delle bicamerali più importanti. Al Copasir, che spetta alle opposizioni maggiori, è probabile l’elezione dell’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, per meriti acquisiti sul campo. Per la Vigilanza Rai invece il rischio è che la destra possa dare una mano al terzo polo.

Al di là della contabilità dei voti, la vicenda interna è il sintomo di diffidenze pre congressuali. Letta ha rimandato alla prossima settimana, forse martedì, la direzione che farà partire le assise. C’era da evitare la sovrapposizione con le consultazioni e la nascita del governo. E poi qualche giorno al segretario uscente serviva per definire la fase «costituente», e in particolare le regole della “chiamata” degli esterni a discutere del futuro partito, e poi a iscriversi.

A questa chiamata in verità per ora rispondono in pochi. A partire dagli alleati: i vertici di Art.1 sono pronti alla tessera, ma devono affrontare un dibattito interno non sempre favorevole al “ritorno a casa”. I socialisti del Psi hanno risposto no. Ed è un no anche quello di Demos, non ufficializzato ma già comunicato. La tempistica è ancora avvolta in una nebulosa: la più probabile è che entro fine anno, o all’inizio del 2023, si celebri la «fase costituente». Entro febbraio l’accoglienza dei nuovi iscritti. Le primarie a metà marzo.

In attesa della mossa

Per questo i papabili si tengono al coperto, anche se l’aria che tira è quella di un palio, con i cavalli in attesa della mossa altrui. Stefano Bonaccini è a un passo dalla rampa di lancio. «Sto ricevendo molte sollecitazioni, da tanti amministratori locali, iscritti, militanti e anche gente che non ci vota più che mi dice di provare a candidarmi per dare una prospettiva diversa al Pd», ha detto ieri su Rai 3, «quando è il momento deciderò che cosa fare, a quel punto non sarebbe più un’autocandidatura». Bonaccini ha già un plotone di amministratori dalla sua, pronti a rivolgergli un appello pubblico. Ma nel Pd è percepito come “uomo del nord”, anche per la sua disponibilità a ragionare con la Lega sull’autonomia differenziata. Al sud per ora è appoggiato dal sindaco di Bari Antonio Decaro e dal presidente della Campania, Vincenzo De Luca.

Problema che ha meno il sindaco di Firenze Dario Nardella, spinto da Dario Franceschini e da Areadem. Di Nardella si segnala una quotidiana avanzata nel dibattito nazionale.

C’è però un fatto, di cui sia Bonaccini sia Nardella sono consapevoli: hanno due profili sovrapponibili, trovare le differenze sarebbe arduo nel dibattito del partito, figuriamoci nei gazebo aperti ai simpatizzanti. Dove invece potrebbe avere più gradimento Elly Schlein, vice di Bonaccini in Emilia-Romagna e neodeputata. Lei però parte svantaggiata nel voto dei circoli, e non è un problema da poco. Nella storia del Pd non è mai successo che il risultato della prima consultazione sia stato ribaltato dalla seconda. L’ex ministra Paola De Micheli ha già dichiarato la sua corsa. Ieri Matteo Ricci ha inaugurato il suo tour “Pane e politica – un sindaco a cena dalle famiglie italiane”, spiegato così: «Ho preso sul serio la fase costituente, altrimenti ci riempiamo la bocca con la parola partecipazione e invece parliamo sempre agli stessi».

Si attende anche la mossa della sinistra, che sarà il core business della sfida a Bonaccini. Ma non arriverà prima della fine della «fase costituente». E ha un solo nome, quello di Andrea Orlando. Che però smentisce sistematicamente, anche se in maniera sempre meno convincente, quelli che danno per certa la sua corsa. L’ex ministro, giorno dopo giorno, a colpi di interventi, dichiarazioni e post, sta già evidentemente componendo la piattaforma di un nuovo Pd orientato a sinistra.

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