«Serve un Pd nuovo». Enrico Letta si presenta da solo davanti ai cronisti al terzo piano della sede del partito, nella sala della direzione intitolata a David Sassoli. Qualche dirigente in realtà c’è, ma resta al di qua delle telecamere. Prima di parlare ha riunito i presenti nel suo ufficio. Peppe Provenzano e l’ala sinistra gli chiedono di non dimettersi. «Tanto più in questa sconfitta durissima serve una guida solida», lo convince Andrea Orlando. Letta annuncia che non si dimette ma resterà al timone della barca per traghettarla fino al congresso, a cui non si candiderà.

Parla di un’accelerazione ma poi spiega che ci sarà da aspettare la formazione del parlamento e del governo. Letta è convinto che un giro di gazebo non basterà a raddrizzare la rotta. E quell’aggettivo «nuovo» piace alla sinistra interna convinta che serva «una fase costituente» (Orlando), per «smontare e rimontare il Pd» (Provenzano).

Va aggiunto che la sinistra non ha ancora deciso un candidato, nel caso di congresso. C’è chi invece ha le idee più chiare, ed è Stefano Bonaccini, che pure deve prendere atto di un risultato severo nella sua Emilia-Romagna, non certo il trampolino in cui sperava. «In questo momento non faccio nulla», si schermisce, ma «il congresso deve essere una grande occasione di rigenerazione, sia sui contenuti sia sulle classi dirigenti».

Il Pd insomma è tutto da rifare. Ma come? «Costituente» contro «rigenerazione» sono le opposte parole d’ordine. Da una parte un’inedita fase alla ricerca di una «identità», dall’altra un fronte di sindaci e amministratori che in realtà stringe i bulloni da tempo, e di cui fa parte anche Antonio Decaro, primo cittadino di Bari: «È l’intero modello su cui il Pd si fonda che va smantellato. Basta con i capi corrente che fanno e disfano le liste a propria immagine e somiglianza. Basta con questo esercizio del potere per il potere. O la sconfitta perpetua alle elezioni politiche sarà il nostro ineluttabile destino». Anche il sindaco di Firenze Dario Nardella è fra quelli che pensano a un passo avanti. E Giorgio Gori, sindaco di Bergamo.

«Rigenerazione» è anche la parola che ripetono gli esponenti di Base riformista, la corrente guidata da Lorenzo Guerini, e che discretamente resta un passo indietro, anche se è l’infrastruttura che si metterà in moto per sostenere la corsa di Bonaccini, se e quando partirà. In serata Orlando dà un altro colpo di freno: «Ma davvero qualcuno è convinto che da una sconfitta di questa portata se ne esca con un congresso ordinario tutto incentrato sul cambio della leadership? Oppure rivendicando lo zero virgola in più in questo o quel territorio, o con la contrapposizione centro-periferia, ripetendo la litania contro le correnti nazionali, magari ben saldi alla guida di filiere locali? Gli errori tattici sono il sintomo, non la causa. E la causa sta nel fatto che il Pd oggi è un soggetto irrisolto».

In conferenza stampa Letta ha attaccato Conte: «I numeri dimostrano che l’unico modo per battere la destra era il campo largo, non è stato possibile non per nostra responsabilità». L’ha dovuto fare perché dalla notte dello spoglio i Cinque stelle lo hanno incolpato per il mancato accordo. Ma soprattutto perché nel suo partito ora anche l’area riformista, che aveva chiuso le porte al Movimento, è pronta a ripensarci. Il tema del congresso costituente o rigenerativo non sarà dunque quello delle alleanze. Il tema è proprio il Pd.

Nato per perdere

Letta ha provato ad «aprire» il Pd con le Agorà democratiche. Ma neanche quest’invenzione è valsa a evitare una sconfitta più cocente di quella del 2018 (Matteo Renzi segretario) che Letta stesso aveva definito «il peggior risultato della sinistra dal Dopoguerra». Che il partito sia da rifare lo dicono ormai tutti. Che sia tutto sbagliato, invece, non lo dice nessuno.

Il Pd è un fallimento di successo. E anche l’ultimo, finale, 18,9 per cento, rappresenta un tesoretto tutt’altro che trascurabile come tram di linea verso le istituzioni. Eppure ormai la serie delle sconfitte alle elezioni politiche è ininterrotta sin dalla nascita. Da quella di Walter Veltroni nel 2008 a quella di Pier Luigi Bersani nel 2013, a quella di Renzi nel 2018, a quella di Letta ieri. La progressione della perdita di voti assoluti e in percentuale è inesorabile.

Leader diversi, con maggiore o minore propensione alle alleanze: Veltroni si è alleato solo con l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, Bersani ha varato la coalizione Italia bene comune con la Sel di Nichi Vendola e i socialisti – l’allora Scelta Civica di Mario Monti si è presentatat in proprio né era possibile allearsi con il proprio, fin lì “carceriere”, del governo tecnico – Renzi ha scansato Leu per ritrovarsi con +Europa, Civica popolare e Insieme. E infine Letta, partito con ambizioni di «campo largo» con M5s e Azione, è arrivato con Rossoverdi, +Europa e il partitino di Luigi Di Maio. Quattro coincidenze fanno una prova: il Pd non è l’Ulivo e non è l’Unione, nasce da quelle esperienze ma è un partito inchiodato a un compromesso interno che impedisce alleanze con soggetti elettoralmente consistenti, a sinistra o a destra.

Life is Schlein

Ma nessuno, neanche in questo momento, spinge il «ripensamento profondo» fino alle sue vere conseguenze. Anche se sono ore di riflessione. In quel «Pd nuovo» indicato da Letta potrebbe essere persino accennata, o compresa, un’ipotesi di “papa straniero”, altra chimera ciclica delle crisi Pd. Ma stavolta è una pontefice.

In campagna elettorale il segretario ha apprezzato e “spinto” molto Elly Schlein, la neodeputata vicepresidente dell’Emilia-Romagna. Creatura prodiana, nata alla politica con l’insorgenza Occupy Pd (2013), è la giovane donna simbolo delle Agorà. Non ha la tessera, e nella conta dei circoli non avrebbe speranze. Ma in quella dei gazebo chissà.

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