«Non ci hanno visto arrivare». Così, con arguzia, Elly Schlein ha esordito la sera della sua vittoria alle primarie del Pd. Vittoria effettivamente inattesa, in contrasto con tutte le previsioni. Eppure, a ben riflettere, vittoria non sorprendente. Merita chiedersi chi siano i soggetti sottintesi, chi non l’ha vista arrivare. Almeno due: i media e l’apparato Pd. Già questo è istruttivo.

L’unica corrente rimasta

Rivela una decisa distanza dei media dalla realtà, dal sentire comune e anche la propensione – non sempre quello dei media è un punto di vista “innocente” – a scambiare auspici con previsioni. Non è un mistero che la stampa mainstream espressione dell’establishment tifava per l’antagonista Stefano Bonaccini. E persino i media governativi.

Ma a non avere avvertito l’onda montante è stato anche il grosso dell’apparato Pd schierato con Bonaccini. Anche in questo caso la prova di una distanza-estraneità del partito rispetto ai sentimenti dei suoi elettori e simpatizzanti. Nel corso della campagna, Bonaccini più volte aveva accreditato la tesi secondo la quale le correnti sostenessero la sua rivale. Una rappresentazione doppiamente forzata.

Sia perché, proprio nella circostanza, le correnti tradizionali si sono parzialmente (e utilmente) disarticolate e, semmai, la sola corrente che non si è divisa è stata proprio quella un tempo renziana che ha sostenuto unitariamente lo stesso Bonaccini. Sia perché, se è vero come è vero, che tra i problemi endemici e strutturali che da gran tempo affliggono il Pd figura un patologico correntismo (ovvero la loro configurazione come mere cordate di potere), logica suggerisce che esse semmai più volentieri si sono disposte a sostenere il candidato favorito. Appunto Bonaccini.

A certificarlo basterebbe la circostanza del puntuale supporto a lui fornito dai due potenti cacicchi regionali, De Luca ed Emiliano, pur così diversi come posizionamento politico. Il mantra, il cavallo di battaglia del presidente dell’Emilia era il “partito degli amministratori locali” a suo dire in opposizione ai capi corrente romani. Come se le correnti fossero solo a Roma e non anche sul territorio.

Non a torto, la sua antagonista ha altresì obiettato che il cosiddetto partito del territorio o degli amministratori locali non configura una linea e tanto meno l’identità politica di un partito nazionale. Di più: di un partito come il Pd la cui condizione critica era (ed è, sia chiaro) tale da avere condotto i suoi vertici a varare regole congressuali che, pur con qualche ambiguità concettuale e lessicale, oscillava tra “rigenerazione” e “costituente” di un Pd che andasse oltre sé stesso. Comunque di un ripensamento radicale ancora incompiuto. Come si è visto nella contesa sulla sua “Carta dei valori” da riscrivere piuttosto che da emendare. Una retorica, quella del partito dei sindaci, risoltasi in una quasi sconfessione politica di essi alla luce del largo consenso della Schlein – e del netto differenziale rispetto al suo competitor – proprio nelle città medie e grandi amministrate dai sindaci Pd schierati con Bonaccini.

Rabbia e speranza

Dicevo di un esito inatteso, ma non del tutto sorprendente se si considera il clima dentro e intorno al Pd: un misto di scoramento, di rabbia, ma anche di speranza. Una domanda di discontinuità e di novità. La sensazione che fosse meglio l’audacia, quasi l’azzardo che non un “usato sicuro” inidoneo a invertire il trend di un lento, inesorabile declino. In tale clima, come sorprendersi del risultato? Si aggiunga un ulteriore elemento.

Anche se, ancora, è tutta da svolgere una meditata riflessione sulle ragioni della sconfitta del Pd alle politiche e alle regionali a seguire in Lombardia e Lazio, due sono concordemente diagnosticate: il cosiddetto “governismo” che ha fatto del Pd il partito dell’establishment e del potere (senza avere vinto elezioni nazionali) e, di riflesso, la sua distanza-estraneità a “chi non ce la fa” (così Letta), ai perdenti della globalizzazione; la rottura sentimentale e pratica con i ceti popolari, che un tempo era il dna di una formazione politica di sinistra.

Iscritti e gazebo

Vero è che il risultato opposto tra primo e secondo turno, tra voto degli iscritti e ballottaggio aperto, per la Schlein rappresenta un problema. Sul punto, tre osservazioni. La prima: effettivamente è assai discutibile la regola statutaria che affida anche ad esterni non iscritti il potere di eleggere la guida del partito. Secondo: è tuttavia difficile non riconoscere che tale regola controversa, in questo caso, si è rivelata provvidenziale. L’impressione è che il Pd avesse bisogno di una scossa, che da sé solo, per logiche e dinamiche interne, non ce la facesse a rialzarsi. Terzo: anche chi, come Antonio Floridia, un valente studioso dei partiti, è decisamente critico sulle primarie aperte cui ha dedicato un suo libro, ci ha fornito dati eloquenti e istruttivi sulla distinzione tra voto al Pd alle politiche, voto degli iscritti e voto al ballottaggio distribuiti sul territorio.

Dai dati si ricava la seguente conclusione: grandi sono le differenze tra nord e sud, ove – non sorprende – in varie aree si è registrato un patologico rigonfiamento dei tesserati (spropositati in rapporto agli elettori del Pd alle politiche). Un dato che sembra avvalorare una delle due motivazioni all’origine delle primarie aperte.

Le rammento. La prima, questa forse oggi desueta: dare una legittimazione più larga a un leader, per statuto, candidato premier di un partito coalizionale dentro un sistema politico avviato verso il bipartitismo (Veltroni-Berlusconi). La seconda motivazione, meno sistemica e più realistica: quella di venire a capo della patologia di partiti ostaggio dei padroni delle tessere. Diluendo il voto degli iscritti in un perimetro più grande comprensivo di elettori, diciamolo, persino più liberi e motivati. 

Dall’Ulivo al Pd

© Marco Merlini /LaPresse

Questa seconda motivazione sembra ancora attuale. Sarebbe interessante riflettere su una differenza tra l’Ulivo e il Pd. Non solo e non tanto in tema di coalizioni. L’Ulivo di Prodi si concepiva come perno-asse di una più vasta coalizione di centrosinistra, consapevole che la storia politica italiana contrassegnata dal pluralismo non potesse essere compressa dentro un forzoso bipartitismo e che, dunque, non si dovesse cedere alla suggestione della reductio ad unum dell’intero campo del centrosinistra. Suggestione poi coltivata da Veltroni e ancor più da Renzi sino alla visione del Pd come “partito della nazione”.

Diversamente l’Ulivo, proprio per questo, concepiva sé stesso come un soggetto-progetto aperto e inclusivo (si faceva il paragone con la Ue e con le “cooperazioni rafforzate” volontarie tra stati), dai confini permeabili, in entrata e in uscita, a differenza di un partito dai confini rigidi, troppo definiti. A monte stava la consapevolezza, in genere, della moderna labilità delle appartenenze e, in ispecie, della circostanza che sempre più i cittadini si riconoscono più volentieri o comunque meno a fatica in un campo di forze progressiste, più che in uno specifico partito.

Riflettevo su questa distinzione tra Ulivo e Pd leggendo i risultati delle primarie ovvero la circostanza che la Schlein abbia raccolto consensi ben oltre gli iscritti del Pd, nei suoi dintorni. Plausibilmente tra chi aveva smesso di votare e, in piccola parte, tra chi, disamorato del Pd, si era rivolto, magari mal grè, al M5s. È significativo che la vincitrice abbia annunciato, come suo primo impegno, quello di coinvolgere stabilmente gli elettori delle primarie. Una risorsa, un patrimonio prezioso di cui non dispongono gli altri partiti, colpevolmente non coltivato dai segretari del Pd che si sono succeduti.

Un’identità chiara

Non ha torto chi dipinge la Schlein come una donna e una politica perfettamente opposta a Giorgia Meloni. Dalla quale tuttavia si dovrebbe imparare una doppia lezione: fare leva su una identità politica marcata e a tutti gli effetti alternativa (altro che Meloni “capace”) ed esercitare una leadership decisamente autonoma così da egemonizzare il campo progressista.

Pensando agli elettori anziché al gioco dei posizionamenti del ceto politico, non sarei così sicuro che il profilo di sinistra del Pd a guida Schlein dischiuda “praterie” al terzo polo (come ha sostenuto precipitosamente Renzi): la deideologizzazione del voto semmai sempre più sensibile all’attrazione delle leadership personali – lo hanno rammentato Mauro Calise e Giovanni Orsina – suggerisce che tali calcoli sono incerti. Non è da escludere – esagero – che elettori possano persino passare dalla Meloni a Schlein senza transitare per partiti centristi situati nel mezzo.

Per il Pd, l’opposizione e l’organizzazione di un’alternativa alle destre si dischiudono opportunità. Senza illusioni circa l’ardua porta dell’impresa. Basti accennare ai titoli delle sfide che attendono la nuova segretaria del Pd: coniugare le sue parole d’ordine e la sue battaglie con una cultura di governo; raccordare le sue giovani e nuove sensibilità con il retaggio delle culture politiche di lunga durata; fare sua la lezione originaria dell’Ulivo di fare sintesi tra laici e cattolici, magari temperando certe punte su questioni divisive; attendere alla ricostruzione di un partito da gran tempo destrutturato ideando forme nuove di partecipazione (anche per via digitale); interagire con le forme diffuse della cittadinanza attiva tipo quella del forum delle disuguaglianze coordinato da Fabrizio Barca.

Su tutto, la scommessa più difficile: valorizzare e governare le differenze interne senza sacrificare il proposito di dare finalmente al Pd un profilo politico e programmatico chiaro e riconoscibile. L’opposto del “ma anche ….” di un partito dall’identità irrisolta.

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