Confusi e felici. Ma di più confusi. Per la vittoria dell’Spd tedesca, il partito fratello italiano Pd esulta. Ma ogni voce che si complimenta con Olaf Scholz lo fa con una sfumatura di rosso diversa. E così si finisce in una specie di Babylon Berlin: ogni corrente dei democratici italiani esalta una socialdemocrazia tedesca diversa, a volte persino immaginaria. Ad aprire le danze è il segretario Enrico Letta, che al quotidiano Repubblica spiega che «la lezione di Scholz è che dalla crisi si esce a sinistra» e che dunque il risultato del voto tedesco rafforza il suo «ottimismo e la convinzione che stiamo entrando in una fase completamente nuova». Per lui l’oscillazione dei sondaggi tedeschi degli ultimi mesi apre speranze di vittoria anche in Italia. In Germania hanno prevalso «i valori di solidarietà, i diritti del lavoro, l’attenzione al sociale e alla riduzione delle disuguaglianze», e fin qui tutto bene. Ma poi si augura «che i liberali non entrino al governo», il che sarebbe un «bene dal punto di vista italiano».

Senonché la minoranza moderata del suo partito la pensa all’opposto. Secondo Alessandro Alfieri, portavoce della corrente Base riformista (quella di Lorenzo Guerini e Luca Lotti) e membro della commissione Esteri del Senato, «un governo Spd, Liberali e Verdi potrebbe rappresentare un cambiamento positivo: i Liberali hanno sempre tenuto una posizione molto netta sul patto di stabilità. Certamente esso andrà reintrodotto, nessuno dice il contrario, dobbiamo però correggerne le storture».

Da questa parte del Pd i complimenti a Olaf Scholz arrivano perché «è riuscito a rassicurare il ceto medio e a dare un messaggio di cambiamento nella continuità rispetto alla cancelliera uscente». Dall’altra Letta elogia in Scholz la radicalità delle proposte, che un po’ gli ricorda la sua svolta nel Pd (ius soli, diritti civili, una spruzzata di laburismo).

In Germania Scholz vince certo spingendo sui temi sociali, ma anche promettendo che «può fare la cancelliera», come ha fatto alludendo a Merkel in uno strepitoso slogan elettorale. Insomma promettendo di raccoglierne l’eredità. Del resto Scholz nella geografia interna dell’Spd è un «riformista», a differenza dei più radicali presidenti federali, Norbert Walter Borjans e Saskia Esken che lo avevano sconfitto al congresso. E se «è vero che c’è stato uno spostamento a sinistra di quel paese», spiega il deputato Stefano Ceccanti, «di quale sinistra si tratta? Di quella di un vicecancelliere del governo di grande coalizione e dei Verdi. Mentre la Linke (il partito della sinistra radicale, ndr) è stata fortemente ridimensionata».

Angela e Matteo

È anche vero che la socialdemocrazia tedesca ha un programma sociale molto più avanzato di quello del Pd. A Berlino per esempio, chiede di aumentare il salario minimo a 12 euro rispetto ai 9,50 attuali. È stato introdotto nel 2015 proprio dalla Spd come condizione per rientrare nella Grosse Koalition con Merkel. A Roma invece solo ora un segretario del Pd avanza che «è tempo di aprire la discussione sul tema». Andrea Orlando, ministro del Lavoro e leader dell’ala laburista del Pd, ammette «l’invidia per il modello politico tedesco» e per «il fatto che durante la campagna elettorale (tedesca, ndr) si è parlato delle questioni di lavoro, di salari, di politiche industriali, di redistribuzione del reddito, di transizione». In Italia molto meno.

Al fondo c’è che in questi anni il Pd ha tenuto con gli eredi di Willy Brandt e di Gerhard Schröder rapporti fraterni, persino intimi. Ed è l’asse Spd-Pd-Psoe che governa le scelte del Pse-S&D in Europa. Ma nella lunga èra del merkelismo, e della guida della Cdu delle larghe coalizioni, è stata la cancelliera a fornire le credenziali europee ai segretari e ai leader italiani. Anche quelli della famiglia politica ex comunista e poi socialista europea.

È stato un incontro con Merkel, anno 2013, a sdoganare Matteo Renzi, ancora sindaco di Firenze ma in irresistibile ascesa. Enrico Letta era a palazzo Chigi e lei lo ha invitato a Berlino. Gesto sgrammaticato che la cancelliera ha spiegato senza complessi: «Ho un rapporto molto buono e molto intenso con il premier Enrico Letta, che ho avvertito dell’incontro con Renzi. Ma ho pensato che se conosco qualcun’altro non è male». Meno di un anno dopo il sindaco di Firenze era a palazzo Chigi al posto di Letta. Nel 2015 Renzi si è accodato alle pressioni di Merkel per far vincere il No al referendum greco sul piano proposto della Troika – la triade Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale – in cambio di un programma di sostegno finanziario. Anche se poi Merkel si è schierata – con Renzi e con la Francia – contro le pressioni per far uscire la Grecia dall’euro che venivano dal suo ministro economico, il falco Wolfgang Schäuble. Lo stesso ministro che – a proposito di credenziali – durante la campagna elettorale del 2013, Pier Luigi Bersani è corso a omaggiare, da candidato della coalizione Italia bene comune. E ad assicurargli che in caso di vittoria avrebbe chiamato nel suo governo il pupillo del tedesco, Mario Monti. Bersani, si sa, non ha vinto.

È con Merkel che il commissario europeo Paolo Gentiloni vanta un rapporto speciale. Perché lei era l’eterna Angela, non i transeunti Schulz (Martin, che nel 2003 si è beccato del «kapò» da Silvio Berlusconi), Gabriel (Sigmar, vicecancelliere nel terzo governo Merkel) e da ultimo Scholz.

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