«Spero che la scissione non ci sia, non farebbe bene a nessuno. Abbiamo bisogno di trovare una sintesi». Ancora una volta a Andrea Orlando risponde alla domanda se alla fine del congresso Pd c’è l’eterno spettro della scissione. La questione viene rivolta con insistenza alla sinistra Pd perché è l’area già oggi più delusa dalla strada imboccata dal congresso («una strada sbagliata, il Pd non sta vivendo una crisi di leadership ma una crisi di identità alla quale non si risponde con la sostituzione della leadership»). L’esito potrebbe accentuarne la delusione.

In realtà però i tormenti della sinistra Pd sono ben altri: escluso l’appoggio a Stefano Bonaccini («il candidato per cui tifano i Cinque stelle, per prendersi definitivamente la nostra sinistra», è il refrain più ripetuto) alcuni dirigenti si avviano a sostenere Elly Schlein. Fra loro c’è sicuramente il capogruppo del Pd a Bruxelles Brando Benifei e forse il vicesegretario Peppe Provenzano.

Altri per ora restano nel gorgo. Orlando sembra ormai deciso a non candidarsi. Circola voce che Gianni Cuperlo ci stia pensando. Cuperlo e Orlando hanno sfidato Renzi alle primarie; e sono stati protagonisti di diverse stagioni politiche. Non sarebbe semplice per l’uno e per l’altro ributtarsi nella mischia.

Il problema però è che Schlein non convince una parte della sinistra dentro il Pd, quella che sulla carta dovrebbe essere il suo riferimento naturale. Perché, da giovane ex scissionista civatiana e poi vicina alle sardine, non ha ancora detto una parola su molti temi: fra l’altro sulla sua idea di partito. Si può dire che non l’ha fatto neanche Stefano Bonaccini, il primo candidato ufficiale.

Ma i simboli contano: lui ha annunciato la corsa dal suo circolo di iscrizione, nel modenese; lei ha parlato da Instagram, il più veloce e “giovane” dei social. Schlein gode della simpatia della segreteria, anche se Enrico Letta promette di fare da «garante» di tutti. È di provenienza prodiana: e ieri si è diffusa la voce che Romano Prodi sarebbe il presidente del comitato costituente che sarà nominato oggi dalla direzione (poi Monica Nardi, la portavoce del segretario, ha chiarito che l’ipotesi «non è mai stata in discussione»).

Franceschiniani e orlandiani meditano di sostenerla. Ma consapevoli che con lei il partito potrebbe subire una torsione radical, forse, ma sicuramente molto, troppo liquida.

Due segretari, due partiti

Poi c’è l’eterno caso di scuola dello statuto del Pd, scritto dagli «stranamore» – secondo l’indimenticabile espressione di Franco Marini, anno 2009 – e riformato da Nicola Zingaretti nel 2019. Il segretario è eletto dalle primarie, la famosa «gazebata». Il voto dei circoli, riservato agli iscritti, serve a “scremare” le candidature. Dall’ultima riforma, ai gazebo si fa il ballottaggio fra i primi due votati dai tesserati.

E che succede se il primo voto non fosse confermato dal secondo? Eventualità mai successa, ma stavolta meno teorica: e più che una scissione, sarebbe la sanzione del “partito di dentro” e di quello “di fuori”. I primi numeri saranno sparpagliati: fra i candidati, oltre a Bonaccini e Schlein, c’è Paola De Micheli, il sindaco di Pesaro Matteo Ricci (ufficializzerà la sua corsa sabato a Roma), forse il sindaco di Firenze Dario Nardella (domenica la sua iniziativa, sempre a Roma). Ma che succede, a mo di esempio, se gli iscritti votassero in maggioranza Bonaccini e i simpatizzanti invece premiassero Schlein?

Nulla: il segretario sarebbe il più votato ai gazebo, spiega il politologo Salvatore Vassallo, che del primo statuto è un estensore: «Dopo il cambio dello statuto, il voto delle primarie è anche quello che determina la composizione dell’assemblea nazionale. Quindi chi vince ha la maggioranza. Certo, prima prevaleva l’idea che a dirigere il partito ci va uno che è iscritto al Pd. Oggi, con le nuove disposizioni, può capitare che una persona fin pochi giorni prima non iscritta diventi segretario, o segretaria».

Non ci crede Stefano Ceccanti, costituzionalista ed ex deputato, e anche lui fra gli estensori del primo statuto: «La politica non è deterministica, ma sin qui il risultato degli elettori ha rafforzato sempre il vantaggio del primo voto. Insomma, è improbabile che il risultato venga ribaltato. E i precedenti lo dimostrano».

È vero. Alle primarie del 2013 nel partito Matteo Renzi prese il 45,34 per cento, Gianni Cuperlo il 39,44. Ai gazebo Renzi prese il 67,55, Cuperlo il 18,21. Nel 2017 fra gli iscritti Renzi prese il 66,73, Orlando il 25,25. Ai gazebo Renzi prese il 69,17, Orlando il 19,96. Nel 2019 Nicola Zingaretti fu il più votato nel partito con il 47,38, contro il 36,10 di Maurizio Martina, e ai gazebo il segretario fece un balzo al 66.

I precedenti dunque escludono che partito e gazebo diano risultati diversi. Eppure Antonio Floridia, studioso del Pd, autore di Un partito da rifare? (Mondadori), non è convinto che stavolta sia come le altre: «Una divaricazione si può creare: tra quelli che discutono e partecipano alla prima fase e poi il cosiddetto “popolo delle primarie” che va ai gazebo e che in gran parte ignora del tutto la discussione precedente, mobilitato da tutte le filiere di potere».

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